di Maurizio Sgroi
Fonte: Le Formiche
Leggo a un certo punto, nell’ultimo Staff report del Fmi dedicato
all’Italia, che “un rallentamento nella crescita globale o ulteriori
perdite di competitività potrebbero far deragliare la ripresa
export-led”, ossia guidata dalle esportazioni. E finalmente trovo
qualcosa di nuovo, per non averlo già letto nei numerosi peana che ci
infligge la stampa nazionale che tanto alimentano anche quella
internazionale.
La novità, poi, non è tanto che la nostra ripresa sia, o almeno tutti
si aspettano che sia, export-led, ma che finalmente leggo il sottinteso
degli ultimi due anni scritto a chiare lettere nei documenti di un
organismo internazionale che, giocoforza, finirà col diventare l’agenda
della nostra vita politica.
Volete un paio di prove?
Il Fmi scrive che un contratto a tutele crescenti aiuterebbe il mercato del lavoro.
Il Fmi scrive che bisogna riformare la giustizia civile.
Entrambi i temi sono entrati nell’agenda della nostra vita politica.
Ora, il punto non è tanto se tali esortazioni siano giuste o
sbagliate. Il punto è che dobbiamo, come Paese, farci i conti, perché
abbiamo troppi debiti da farci finanziare da gente che i rapporti del
Fmi li legge, a differenza di quanto succede in Italia.
Detto ciò, scoprire che il nostro paese sta sperimentando una
ripresa, che però ancora non si vede, export-led, implica che dobbiamo
puntare sul commercio estero per uscire dalle secche della nostra
depressione, esattamente come hanno fatto gli altri PIIGS. E al tempo
stesso che dovremmo fare i conti con un robusto consolidamento fiscale
per continuare a garantire la sostenibilità del debito.
Ma anche questo lo sapevamo già.
E tuttavia vale la pena leggerlo, questo rapporto, perché ci ricorda
alcune cose che il nostro dibattito pubblico tende a sottovalutare,
purtroppo.
La prima è che i nostri tassi reali, a causa dell’inflazione
declinante, orbitano intorno al 3%: solo la Spagna paga il denaro più di
noi, quotandosi il tasso iberico sui prestiti intorno al 3,5%. Vale la
pena sottolineare che tale tasso reale, che poi è quello che ci dice
sulla sostenibilità dei nonstri debiti, pubblici e privati, era di poco
superiore allo 0,5% ancora a settembre 2010 ed è persino diminuito fino
al terzo trimestre del 2012, quando ha iniziato, inesorabile, la sua
salita.
Quelli che festeggiano il ribasso dello spread, insomma, dovrebbero
pure ricordare che è vero, come ci ricorda sempre il Fmi, che è
diminuito di 320 punti base dal picco del 2011. Ma è altresì vero che
nel 2011 pagavamo un tasso reale sui prestiti inferiore allo 0,5%,
mentre adesso siamo decollati al 3%. Colpa del crollo dell’inflazione,
certo. Ma, come diceva Totò, è il totale che fa la somma.
Avere tassi reali così alti, a parte danneggiare i conti pubblici,
mette a repentaglio quelli privati, a cominciare da quelli corporate. Il
Fmi osserva con una certa preoccupazione il livello raggiunto dai non
performing loan (NPLs), ossia i crediti in sofferenza presso le banche, e
nota che con sistema bancario che deve fare i conti con questa
situazione è estremamente difficile far ripartire gli investimenti,
autentico tallone d’achille del sistema italiano, ancora sotto del 27%
rispetto al livello pre crisi.
Ne sia prova il fatto che le risorse che il governo ha destinato al
pagamento dei debiti della PA, circa l’1,6% del Pil al momento in cui
scrive il Fmi, non sono state usate dalle imprese per investire, ma per
ripagare i debiti. In sostanza, è come se il pagamento dei debiti della
Pa sia servito direttamente alle banche e indirettamente al Paese.
Ma poiché dovremmo scommettere sulla ripresa export-led, giova pure
sottolineare un altro punto. “La combinazione fra una domanda interna
debole e un miglioramento della crescita globale – scrive il Fmi – ha
condotto a una diminuzione degli squilibri esteri italiani e a un
modesto surplus di conto corrente nel 2013″. Addirittura, “la quota di
export globale dell’Italia è aumentata per la prima volta dal 2013″.
Dev’esser questo, mi dico, ad aver generato l’equivoco. Il pensiero
voglio dire che un’economia grande come quella italiana possa davvero
sostenersi solo con le esportazioni: manco fossimo l’Irlanda o la
Svizzera.
Allora mi vado a cercare il grafico che fotografa il rapporto fra
investimenti ed esportazioni e osservo che, fatto 100 il livello del
2008, l’export, dopo aver conosciuto un tonfo nel 2009, quando è sceso
quasi a 75, non ha ancora, malgrado tutto, superato il livello 95,
mentre gli investimenti sono in costante calo, orami sotto 75. Il famoso
27% in meno. E mi riesce difficile capire come potrebbe, un’economia
che non investe, recuperare quote di export.
Ma è di sicuro un mio limite. A meno che, certo, non si pensi di
migliorare l’export netto semplicemente contraendo la domanda interna.
La qualcosa sarebbe vagamente suicida, in un momento deflazionario come
quello che stiamo vivendo, con una disoccupazione al 12,3%, cui
bisognerebbe aggiungere un altro 2% di lavoratori non ricompresi delle
statistiche, e la considerazione che abbiamo una disoccupazione di lungo
termine al 58%, 20 punti sopra la meda Ocse.
A fronte di questi dati sul lavoro, abbiamo che i salari nominali
sono aumentati dell’1,4%, nel primo quarto del 2014, che significa un
incremento reale dello 0,9%. “L’esperienza di altri paesi indica che
riprendersi da una bassa inflazione con salari crescenti è più probabile
generi disoccupazione”, osserva il Fmi. Ciò sembra voler implicare o un
ulteriore peggioramento della disoccupazione o una decisa diminuzione
del salari.
Ma soprattutto, un’economia export-led dovrebbe poter contare su un
sistema finanziario robusto per sostenere la produzione di merci a basso
costo, come insegna la ricetta mercantilista. E invece le nostre
banche, oltre ad essere gravate dalle sofferenze interne, soffrono di
una notevole esposizione verso i paesi centro-orientali che le rende
particolarmente vulnerabili a scossoni di quell’area geografica, come
mostra con chiarezza il caso russo-ucraino.
Il Fmi ci ricorda che che oltre ad essere esposti a shock sul
versante energetico, visto che importiamo l’80% del nostro fabbisogno, e
ai relativi prezzi – un incremento del costo del 15-20% potrebbe far
salire lo spread di 100 punti base – lo siamo anche sul versante
finanziario, con esposizioni bancarie nell’ordine del 3% del Pil e di
investimenti diretti per un altro 1%.
So what? “Ritardi nell’azione politica nazionale, o nelle riforme Ue,
o grandi sorprese negative nell’asset quality review (della Bce, ndr)
possono minare la fiducia e spingere l’Italia in un brutto equilibrio. E
in quanto terzo mercato più grande dei bond sovrani, il contagio
esterno potrebbe essere notevole”. Tale contagio inizierebbe
propagandosi tramite gli altri PIGS, quindi Portogallo, Irlanda e Spagna
e poi, da lì in poi, l’unico limite sarebbe la fantasia.
E così veniamo al punto. Abbiamo seminato obbligazioni pubbliche in
mezzo mondo e adesso dobbiamo sostenerne la credibilità, pena un grave e
doloroso redde rationem globale. “Rapidi progressi nell’agenda delle
riforme potrebbero migliorare la fiducia e l’attività economica,
rinforzandosi l’una con l’altra”, ci ricorda il Fmi.
Dobbiamo fare le riforme perché il resto del mondo continui a
comprare il nostro debito, visto che siamo seduti sulla bomba che
potrebbe far saltare la montagna di capitale fittizio generata in questi
anni.
Dobbiamo quantomeno dire che le stiamo facendo e che vogliamo
continuare a farle, visto che ancora, come nota il Fmi, le riforme sul
mercato e sui prodotti non si vedono.
Al buon cuore del Fmi aiutarci a scriverne l’agenda. Il Fondo ci
suggerisce anche le misure da adottare qualora si verificasse lo
scenario di un drammatico calo di fiducia: costruire dei buffer fiscali
aumentando l’avanzo primario, assicurare il rispetto delle fiscal rule,
quindi la regola del debito del fiscal compact, per far aumentare la
credibilità, e, dulcis in fundo, “attivare l’OMT se necessario”.
Ricordo ai non appassionati che l’OMT è il programma della Bce che
prevede l’acquisto di bond di uno stato sovrano sul mercato secondario a
fronte di chiari e certificati impegni dello Stato nazionale a fare
“tutto ciò che è necessario”, per citare il nostro governatore della
Bce.
Per la cronaca l’attivazione dell’OMT da parte della Bce prelude al
coinvolgimento del Fmi, qualora sia necessario un supporto finanziario.
Arriviamo così ai due terzi della Troika. Manca giusto la Commissione europea e poi il gioco è fatto.
Se il mondo si convincerà che i nostri debiti sono più pericolosi del
tollerabile, ci manderà la Troika. Intanto, grazie al Fmi, ci ricorda
cosa ci aspetta.
Il governo italiano, qualunque esso sia, seguirà
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