Fonte: Eurasia
DA SERGEIJ SEMANOV AL “COMUNISMO PANRUSSO”
Unico erede di rilievo della tradizione politica, ideologica ed istituzionale dell’Unione Sovietica, la stampa occidentale si era occupata con particolare attenzione di Gennadij Zjuganov già nel 1996 quando, da candidato presidente, sfidò Boris Eltsin perdendo un confronto che, a detta di molti, fu pesantemente segnato da brogli elettorali. Dopo aver ricostruito un partito di massa dalle ceneri della dissoluzione sovietica, il Partito Comunista della Federazione Russa ha raccolto attorno a sé gli ambienti legati ad un variegato insieme ideologico e culturale definito posteriormente con il nome di “partito russo”. Si trattava di un movimento non-ufficiale, trasversale agli organi istituzionali, sorto in Unione Sovietica durante gli anni Sessanta e composto da personalità di spicco del PCUS, dell’Armata Rossa, della lega giovanile comunista del Komsomol, dei sindacati e dei circoli scientifici, artistici e letterari. Il filo comune che connetteva questo movimento a vasti strati della popolazione e dei militanti di base era un sostanziale ribaltamento teorico rispetto al dogmatismo ideologico di alcuni intellettuali e quadri intermedi: anteporre il rafforzamento del sistema statale russo al consolidamento del socialismo e alla sua evoluzione verso il comunismo1. Sul finire degli anni Sessanta, le posizioni espresse dal cosiddetto “partito russo” acquisirono un’ampia eco grazie a riviste come Oktjabr, Ogonëk, Moskva, Žurnalist, Naš Sovremennik e, soprattutto, il mensile del Komsomol, Molodaja Gvardija2.
Durante l’era Brežnev, le alte gerarchie del potere sovietico si mantennero per lo più equidistanti da entrambe le tendenze e spesso sembravano muoversi nel mezzo, sospese tra un orientamento e l’altro, in un’incertezza ideologica e politica che venti anni più tardi sarebbe risultata fatale per le sorti di un Paese ormai vittima del revisionismo storico e del cosiddetto “auto-sciovinismo”, cioè della lugubre e drammatica autoconvinzione di una propria presunta inferiorità rispetto all’Occidente.
Nell’agosto del 1970 proprio il mensile Molodaja Gvardija fu al centro di un’aspra polemica, scoppiata in seguito alla pubblicazione del saggio Valori Relativi e Valori Eterni. L’autore, l’intellettuale Sergeij Semanov, fu accusato di aver esaltato l’era staliniana e di aver descritto l’Unione Sovietica in termini di “potenza imperiale”3. L’articolo aveva destato evidenti preoccupazioni tra quei quadri del PCUS maggiormente orientati verso l’apertura della società sovietica e la normalizzazione dei rapporti con l’Occidente, pronti ad utilizzare strumentalmente la retorica marxista-leninista per condannare quelle posizioni. Del resto, l’operazione di rivisitazione teorica portata avanti dal “partito russo” era evidente: l’internazionalismo proletario fu integrato dallo spirito di fratellanza universale dell’uomo russo esaltato da Dostoevskij4; lo scontro mondiale tra capitalismo e socialismo fu parzialmente reinterpretato come momento dell’eterna lotta tra la spiritualità russa e il “materialismo borghese” del mondo occidentale, secondo i parametri sintetizzati nell’idea slavofila di Ivan Kireevskij e Alekseij Chomjakov5; l’obiettivo della scomparsa delle classi sociali nella fase di transizione verso il comunismo fu integrato nell’escatologia comunitaria slavo-ortodossa contenuta nel concetto di sobornost’6.
È dunque facile capire come il cosiddetto “fenomeno Zjuganov” non costituisca un’anomalia o una stravagante rielaborazione in termini teorici rispetto alla storia sovietica né, per dirla con termini eltsiniani, una “degenerazione rossobruna” rispetto ad un paradigma storico-politico che in realtà non fu mai adeguatamente conosciuto e approfondito in Occidente durante la Guerra Fredda. La positiva affermazione elettorale del Partito Comunista della Federazione Russa alle ultime elezioni parlamentari (20% dei consensi) e la completa messa in minoranza dei partiti più dogmatici (VKPB, RKRP, RPK), hanno spiegazione proprio nella formazione socio-culturale della popolazione dei Paesi ex sovietici, dove a partire dal 1991 le tematiche relative alle tradizioni religiose e popolari hanno assunto un significato estremamente importante in termini politici. Circa dieci anni fa il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko, ex membro del PCUS ed ex ufficiale dell’Armata Rossa, ha firmato un accordo di cooperazione con la Chiesa Ortodossa di Minsk destinando parte dei progetti giovanili di Stato alla manutenzione e al restauro dei monumenti e degli edifici dall’alto significato patriottico e spirituale. Il presidente kazako Nursultan Nazarbaev, ex segretario generale del Partito Comunista della RSS del Kazakhstan, ha annunciato molti anni fa di aver sempre professato la fede musulmana e di voler fare del suo Paese un luogo di dialogo e di incontro la civiltà cristiana e quella islamica, come ben delineato nel discorso che ha tenuto durante il vertice dei Capi delle Religioni Tradizionali del mondo svoltosi ad Astana nel 2011. Nel novembre del 1992, Eduard Shevardnadze, ex ministro degli Esteri dell’URSS ed ex presidente della Georgia, annunciò alla stampa il suo battesimo e la sua conversione al cristianesimo ortodosso di rito georgiano7.
Crollate le certezze dell’ideologia ufficiale del PCUS e smarriti i punti di riferimento collettivi dell’era precedente, l’appiglio sociale per gran parte della popolazione dell’ex Unione Sovietica sarebbe stato costituito dall’eredità culturale presovietica. Un processo politico e culturale del tutto naturale portò dunque il Partito Comunista della Federazione Russa a rafforzare presso l’opinione pubblica la convinzione secondo cui proprio la sconfitta storica del “partito russo”, sancita dalla perestrojka e dal golpe fallito del 1991, aveva determinato la deflagrazione dell’URSS e l’ascesa di Boris Eltsin alla guida della neonata Federazione Russa. Secondo Gennadij Zjuganov, la mancanza di una chiara ridefinizione dell’assetto dello Stato in termini teorici ed il revisionismo adottato nei confronti dell’operato di Stalin a partire dal 1956, avevano provocato un vuoto ideologico e culturale che ormai nemmeno il pur presente richiamo al patriottismo era in grado di colmare. Scriveva Zjuganov nel 1994: «La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha dimostrato, indubbiamente e nitidamente, che l’ideologia denazionalizzatrice dei tempi della ‘stagnazione’ non è stata in grado di opporsi agli influssi distruttori e antistatali, ostili alla forza della Russia […] Le ragioni di quanto è successo sono sotto gli occhi di tutti. Lo stato si è dissolto perché si sono dimenticate le plurisecolari e profonde radici che sono state il fondamento dell’unità statale, culturale e religiosa di tutto il popolo»8. L’Unione Sovietica sarebbe dunque crollata perché incapace di focalizzarsi sulla sua peculiare matrice integrativa eurasiatica e sui principi geopolitici e geoantropici fondanti della storia imperiale russa. L’assenza di una chiara e definita “idea russa” in seno al socialismo sovietico non aveva perciò semplici ripercussioni di carattere estetico e folkloristico, ma pesantissime implicazioni sul piano strettamente politico, strategico ed economico. Il primo compito del Partito Comunista della Federazione Russa è stato pertanto quello di ridefinire a posteriori l’esperienza sovietica come una forma di civiltà inserita nel contesto della Russia storica, riconsiderando tutta una serie di autori e intellettuali del XVIII e del XIX secolo, senza dimenticare il contributo di Lev Nikolaevic Gumilëv, l’etnografo pietroburghese che ispirò la nuova scuola eurasiatista russa degli anni Novanta.
CAPOVOLGERE BELOVEŽA CON LO SGUARDO ALLA CINA
La decentralizzazione del potere avviata dalla Dottrina Sinatra di Mikhail Gorbacëv ha ben presto rivelato la sua natura distruttiva, traducendosi nella definitiva disintegrazione dell’Unione e nella separazione stabilita durante gli accordi di Beloveža. Ribaltando i risultati del referendum indetto nel marzo 1991, dove il 76,4% degli elettori si dichiarò favorevole alla conservazione di un’Unione riformata, le dirigenze politiche affermatesi nella fase della glasnost’ a Mosca, Minsk e Kiev si riunirono nel dicembre dello stesso anno e dichiararono la fine di ciò che restava dell’Unione Sovietica.
Zjuganov sostiene che senza l’Unione la Russia non è tale e non può essere considerata uno Stato di pieno valore, perché «parlando propriamente, la Russia è quell’ampia Unione che si è formata nel corso dei secoli e che ha raggiunto circa cento anni fa (fine del XIX secolo, ndt) i propri confini geopolitici naturali»9. Secondo i piani previsti da Zjuganov, la riunificazione, su basi volontarie, dovrà avvenire tra i «tre popoli fraterni» della «Grande Russia, della Piccola Russia e della Russia Bianca», ovvero tra le popolazioni di Russia, Ucraina e Bielorussia che condividono quasi interamente le stesse origini slavo-orientali e ortodosse.
Il Partito Comunista Ucraino, guidato da Pëtr Simonenko e risalito al 15% dei consensi proprio nel 2012, prevede un percorso di ripristino paritario del bilinguismo (ucraino e russo) e l’adesione del suo Paese alla già esistente Unione Doganale formata da Russia, Bielorussia e Kazakhstan. Nel programma del partito è esplicitamente sostenuto che: «La lezione derivante dal ventennio 1960-1980 dovrebbe essere quella in base a cui non sono state prese misure sufficienti per fermare la sovversione delle potenze imperialiste e i loro agenti in URSS. È stato sottovalutato il pericolo borghese del nazionalismo sciovinista, in particolare in Ucraina. Guidati e sostenuti dai servizi segreti delle potenze imperialiste, le forze dislocate tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta hanno avviato ingenti attività per cancellare il potere sovietico in Ucraina e per provocare il crollo dell’URSS e la separazione dell’Ucraina dalla Russia, cioè uno degli scopi principali dell’imperialismo»10. Il Partito Comunista Bielorusso, guidato da Igor Karpenko e presente in parlamento tra i banchi della maggioranza che sostiene il presidente della Repubblica Aleksandr Lukašenko, è stato indebolito dalle divisioni interne ma continua a svolgere un ruolo importante nel quadro politico-sociale del Paese. Nel suo programma viene ribadito che «il corso della storia rivela come la genesi del valore spirituale dei bielorussi ha avuto luogo nel contesto della mentalità slava orientale […] ciò ha determinato la tendenza al principio dell’organizzazione collettiva del lavoro e il suo contributo alla vita. Vale a dire che l’identità slavo-russa dei bielorussi è chiaramente evidente dal loro desiderio di unirsi con la Russia»11. Sia Simonenko che Karpenko erano presenti al XV Congresso del Partito Comunista della Federazione Russa e hanno ribadito la solida alleanza dei tre partiti, che ricalca in linea di massima i progetti economici, tecnologici e strategici già sussistenti tra i tre Paesi (Unione Doganale, Unione di Stato Russia – Bielorussia, Accordi di Sebastopoli ecc. …), conferendo loro maggior forza politica, ideologica e culturale qual’ora le istanze da essi promosse dovessero affermarsi definitivamente.
Il generale italiano Carlo Jean suddivide la nuova scuola geopolitica russa in tre distinti filoni12. Il primo sarebbe quello europeista o atlantista, dominante durante la fase gorbacioviana, ispirato al riformismo di Pietro il Grande, secondo cui la Russia dovrebbe guardare agli Stati Uniti e all’Europa per fuoriuscire dalla sua arretratezza in termini tecnologico-industriali. Il secondo sarebbe quello panslavo o “eurasista nazionalista”, dove la Russia viene inquadrata come centro di una civiltà eurasiatica, unica ed irriducibile, espressione del mito della Terza Roma, contrapposta alle potenze della NATO e a qualunque progetto di integrazione occidentale del Paese, spostando dunque il baricentro della nazione verso Est poiché «la Russia non ha conquistato la Siberia; è stata creata dalla Siberia»13. Il terzo sarebbe quello “eurasista internazionalista”, che intende il concetto di Eurasia in senso più ampio coinvolgendo anche Cina, India e Iran nella lotta contro l’intromissione anglo-americana nel continente.
Malgrado la forte unità politica tra i partiti comunisti delle tre repubbliche “sorelle” della Russia, dell’Ucraina e della Bielorussia e nonostante il fatto che Jean consideri uno dei testi fondamentali di Gennadij Zjuganov, ossia Geografia della Vittoria. I fondamenti della geopolitica russa, come la massima espressione del secondo filone, cioè quello panslavo, in realtà la visione geopolitica del Partito Comunista della Federazione Russa non è riducibile ad un ristretto panslavismo ma unisce nei propri documenti politici alcuni elementi del secondo e del terzo filone, adeguatamente adattati alla dialettica e alla prassi di un partito che resta, almeno nelle sue basi, un movimento di ispirazione leninista. L’internazionalismo socialista viene infatti ancora considerato da Zjuganov un parametro fondamentale nell’analisi geopolitica del pianeta e nello studio politico, economico e militare dell’imperialismo, secondo la declinazione operata da Stalin ne I Principi del Leninismo in base alla quale la natura dello scontro di classe tra forze capitalistiche e forze socialiste assume significati diversi in relazione alla funzione geopolitica svolta dai singoli Paesi nell’arena internazionale.
Inoltre l’idea di un fronte “eurasiatico” di Paesi non-allineati alla NATO composto da Russia, Cina e India non è di esclusiva pertinenza del filone neoeurasiatista né tanto meno rappresenta una novità recente nel dibattito strategico nazionale dal momento che fu addirittura introdotta alla fine degli anni Novanta dall’ex primo ministro Evgenij Primakov, al quale potrebbe persino essere attribuita la primogenitura teorica del cosiddetto gruppo dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), poi divenuto BRICS con l’integrazione del Sud Africa. Infine, la Repubblica Popolare Cinese è stata spesso considerata da Zjuganov un fondamentale interlocutore politico col quale i comunisti russi avrebbero dovuto recuperare il dialogo interrotto bruscamente dalla crisi sino-sovietica degli anni Sessanta e Settanta. Già nel 1998 Gennadj Zjuganov rimarcò:«Con la Cina abbiamo il più lungo confine in comune, circa seimila chilometri di frontiera, e vogliamo avere con essa anche ottimi rapporti di vicinato a lungo termine. La Cina è un partner strategico indispensabile a Oriente, un Paese che ospita sul proprio territorio un miliardo e duecento milioni di persone e che è già entrata nella trojka delle più grandi potenze mondiali. Il mio partito è molto sensibile ai rapporti tra i due Paesi e ci stiamo dando molto da fare per intesserne degli altri»14. Secondo il politico russo, in particolare, la vera arma segreta che ha permesso al Partito Comunista Cinese di mantenere una sostanziale stabilità interna sarebbe stata proprio la capacità – riassunta nella formula del “socialismo con caratteristiche cinesi” – di abbinare le caratteristiche culturali tradizionali con il marxismo evidenziando una duttilità notevole anche per quanto concerne l’integrazione tra le diverse forme di proprietà (pubbliche e private) ed impedendo al contempo che il ruolo dominante dello Stato e la funzione sociale dell’economia fossero messi in discussione15.
POTENZIARE LA DIFESA
Elemento ricorrente in tutto il pensiero geopolitico dei comunisti russi è l’esercito. Non è un caso che il XV Congresso sia cominciato il 23 febbraio, ovvero nel giorno dei Difensori della Patria (Den’ Zaščitnika Otečestva), una ricorrenza nazionale che celebra la data del primo arruolamento nelle file dell’Armata Rossa, avvenuto il 23 febbraio 1918. Il Partito Comunista della Federazione Russa ha sempre cercato di rappresentare un baluardo di riferimento politico per le Forze Armate, al punto che non pochi ufficiali di medio e alto grado sono iscritti al Partito. Nel documento congressuale pubblicato pochi giorni prima dell’avvio dei lavori, la denuncia dell’atavica corruzione interna al sistema federale russo, sempre più difficile da estirpare, non ha tuttavia risparmiato il comparto difensivo nazionale, recentemente sconvolto dallo scandalo legato alla società Oboronservice. Le critiche all’ex ministro della Difesa Anatolij Serdjukov e alla sua controversa riforma militare hanno evidenziato l’attenzione che il Partito Comunista dedica all’esercito.
L’analisi del corso postsovietico intrapreso dal pianeta e dalla Russia è spietata. Secondo Zjuganov, dopo il 1991 l’espansionismo verso Est della NATO ha dimostrato definitivamente la vera natura imperialista degli Stati Uniti e dei loro alleati. Dopo la conclusione della Guerra Fredda, la NATO non soltanto non è mai stata smantellata ma ha addirittura spostato i confini della sua area geostrategica di ben 1.000 km verso Est, accerchiando la Russia da Nord (Mar Baltico) e da Sud (Mar Nero). Se l’Ucraina e la Bielorussia dovessero essere nuovamente sconvolte da moti politici esterni o interni – sanzioni, pressioni internazionali, rivoluzioni colorate, golpe o ribaltamenti politici – esiste la seria possibilità che anche questi due Paesi possano avviare iter di integrazione nella NATO, senza considerare quelli relativi alla Finlandia e alla Georgia, già in fase di dibattimento presso il Consiglio dell’Alleanza Atlantica. A quel punto la Federazione Russa sarebbe completamente accerchiata lungo tutti i suoi confini occidentali. Inoltre, secondo quanto emerge dal documento congressuale del Partito, «gli Stati Uniti e i loro alleati stanno velocemente sviluppando nuove tipologie di armi, compresi i sistemi antimissile e le strumentazioni d’attacco ipersoniche […] la forza delle truppe dell’Alleanza nel teatro europeo è quantificabile in un volume 10-12 volte più grande di quello dell’Esercito Russo»16.
La decisione di alcuni governi europei, tra i quali anche l’Italia, di stabilire nuovi piani di riassetto strategico e militare ha dimostrato che la crisi economica non impedisce il massiccio riarmo ai Paesi occidentali e lascia supporre che i sacrifici cui i popoli europei sono e saranno chiamati attraverso la cosiddetta politica di “austerità” serviranno proprio a questo, come intuibile anche dalle frasi di circostanza con cui Robert Gates e Leon Panetta hanno presentato la dottrina della Smart Defense tra il 2011 e il 2012. Il documento del Partito Comunista della Federazione Russa lamenta con seria preoccupazione un’evidente sproporzione di forza tra la Federazione Russa e la NATO: «L’Aviazione Russa possiede circa 1.500 aeroplani intercettori e di prima linea. Ma solamente un po’ più della metà di questi possono svolgere e compiere le loro missioni di combattimento. La flotta dell’Aviazione Militare ha non più di 1.330 elicotteri da combattimento e da trasporto. Al contrario, l’Aviazione della NATO detiene circa 4.000 cacciabombardieri e più di 9.000 elicotteri. Soltanto circa il 30% della già modesta flotta dell’aviazione di lungo-raggio (denominazione che indica l’aviazione strategica in URSS e in Russia, ndt) è idoneo al volo. Tra i gravi problemi vi sono carenze catastrofiche di motori, un insignificante numero di aerei da rifornimento, la mancanza di campi d’aviazione operativi nella regione artica e la loro copertura dai possibili attacchi aerei e spaziali. Tutto ciò porta la capacità dell’aviazione strategica vicino allo zero»17.
Nello scorso mese di dicembre, una delegazione del Partito ha chiesto ed ottenuto un’urgente incontro a porte chiuse con il nuovo ministro della Difesa Sergeij Shoigu. Il contenuto di quella conversazione è ovviamente sconosciuto ma le parti si sono dette soddisfatte del confronto. Non è difficile ipotizzare cosa potrebbe aver richiesto la delegazione capeggiata da Zjuganov in quel vertice. Come ribadisce il documento congressuale: «Il Partito Comunista della Federazione Russa sta sostenendo con decisione il rafforzamento della capacità difensiva del nostro Paese. I nostri deputati stanno lavorando con solerzia su questo in Parlamento. I nostri compagni hanno un ruolo attivo nelle discussioni alla Duma di Stato sulle questioni relative alle Forze Armate e all’industria della difesa. Il Partito Comunista della Federazione Russa ha avviato una serie di dibattiti e tavole rotonde all’interno del Parlamento coinvolgendo parecchi esperti militari. I problemi di tutti i reparti militari sono stati discussi e valutazioni professionali sullo stato delle Forze Armate sono state intraprese. Specifiche raccomandazioni sulle vie da percorrere per migliorare le condizioni attuali sono state fornite»18.
NOTE:
1. R. Medvedev, La democrazia socialista, Vallecchi, Firenze, 1977, p. 105.
2. Ibidem, p. 63.
3. Ibidem, p. 105.
4. A. Walicki, Una utopia conservatrice, Einaudi, Torino, 1973, p. 541.
5. W. Giusti, Il panslavismo, Bonacci Editore, Roma, 1993, pp. 52-53.
6. Si veda M. Costa, Soviet e Sobornost. Correnti spirituali nella Russia Sovietica e Postsovietica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2011.
7. Ocala Star-Banner, Shevardnadze claims Christian religion, 24 novembre 1992.
8. G. Zjuganov, Stato e Potenza, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1999, pp. 64-65.
9. Ibidem, p. 106.
10. Komunistychna Partiya Ukrayiny, Programma, 2013.
11. Komunistychnaya Partyia Belarusi, Programma, 2013.
12. C. Jean, Manuale di Geopolitica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 224-227.
13. F. Thom, Eurasisme et néo-eurasisme, 1994, p. 308.
14. G. Zjuganov, Così rifaremo l’Urss, intervista di M. De Bonis, Limes n. 4/1998.
15. CNC World, Interview of Gennady Zyuganov – China’s Development Experience, 26 ottobre 2012.
16. Partito Comunista della Federazione Russa, Rapporto Politico del Comitato Centrale al XV Congresso del PCFR, Mosca, Febbraio 2013.
17. Ibidem.
18. Ibidem.
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