di Tancredi Sforzin - Fonte: L'intellettuale dissidente
Ma che cosa sta accadendo nell'attuale congiuntura internazionale? E' evidente che la fase iniziata con le trattazioni di Fukuyama, Hungtinton e Sharp stia volgendo al termine e che, nonostante la recente ripresa del dibattito sullo scontro di civiltà, potremmo aspettarci novità libresche ed evoluzioni politiche
Oggi facciamo
un’attività particolare”, disse il Colonnello al termine dell’adunata
del mattino. Chiamò immediatamente da parte alcuni soldati sospetti di
attività illecite e fece prontamente entrare i cani antidroga a
setacciare l’intera caserma. Settembre è il momento ideale per fare il
punto della situazione, il mese di agosto ci ha consegnato una realtà
mediatica completamente diversa da quella che conoscevamo, carica di
tensione ed isteria. Abbiamo seguito passo per passo l’evoluzione del
clima italiano ed internazionale, abbiamo scosso il velo di Maya ma
sembra non essere stato sufficiente a squarciarlo. Perciò anche noi,
oggi, faremo un’attività particolare. Chiameremo da parte Francis
Fukuyama, Samuel Hungtinton e Gene Sharp, soldati dell’unilateralismo
statunitense. Faremo il punto della situazione, inquadreremo le
problematiche in una visione d’insieme, scioglieremo i cani.
L’origine di quanto
vediamo oggi, è antica. Nei primi anni Novanta del secolo scorso cadeva
l’Impero del Male, il blocco sovietico e gli Stati Uniti, unica
superpotenza mondiale rimasta, si trovarono nella condizione di doversi
interrogare in relazione al proprio ruolo e al proprio destino. Il
dibattito si svolse immediatamente nel corso degli anni Novanta ed è in
quel contesto che Francis Fukuyama scrisse “The End of History and the
Last Man” (1992). In quel testo, il politologo neocon interpretò la
storia dell’uomo nei termini di una progressione che vedeva nel XX
secolo l’ultimo traguardo, coincidente con il trionfo dei valori
liberali e democratici sui totalitarismi fascista e comunista. Leggi di
mercato, sostenute alla base dalla responsabilizzazione determinata
dall’assetto politico democratico, secondo Fukuyama, rappresentavano
l’ultima e definitiva tappa dell’evoluzione umana, consegnando alla
storia le pretese utopiche delle ideologie progressive totalitarie,
comunismo in primis. Si apriva, dunque, il nuovo scenario di un mondo
definitivamente pacificato, la fine della storia e l’ultimo uomo.
Samuel Hungtinton,
anch’egli neocon, rispose a Fukuyama l’anno successivo, con un articolo
pubblicato su Foreign Affairs. Tre anni dopo, nel 1996, espose
organicamente la propria teoria nel testo epocale “The Clash of
Civilizations and the Remaking of World Order”. Questo testo non deve
essere letto in contrapposizione a quello di Fukuyama, esiste una
sostanziale continuità tra i due. Se il contesto sorto dalla caduta dei
blocchi segnava per Fukuyama il punto terminale di ogni attesa politica e
l’alba di un nuovo ordine mondiale, lo stesso ordine per Hungtinton si
dava ancora in via di formazione; per lui, nuovi conflitti sarebbero
nuovamente sorti, ma non sarebbero più stati di ordine politico, bensì
culturale e religioso. Operò, dunque, una semplificazione, rimaneggiando
le vecchie categorie della Guerra Fredda ed applicandole ad un mondo
completamente diverso, che in realtà volgeva – lo vediamo oggi- al
multipolarismo: un Occidente civile da un lato, contrapposto al Rest,
il mondo residuale ad esso, il cui contenuto consisteva nell’esatto
opposto di liberalismo e democrazia. In definitiva, venuto a mancare il nemicus comunista, termine di paragone in base al quale l’id occidentale si strutturava, si inserì l’Islam nell’area magmatica del Rest, consegnandolo al ruolo di nuovo Male Assoluto.
In Fukuyama ed
Hungtinton, ci sembra di poter rilevare aspetti profetici ma in realtà,
analisi, profezia e strategia, nei testi dei due politologi si
confondono. Effettivamente, alle teorizzazioni di Hungtinton seguirono
gli eventi dell’11 settembre 2001 e il clima culturale che si diffuse ne
fu consequenziale, senz’altro fino al 4 giugno 2009, data dello storico
discorso di Barack Obama al Cairo, nel quale si preannunciò un nuovo
inizio nei rapporti tra mondo musulmano e Stati Uniti. In seguito a
quella data, esplose la Primavera Araba che, considerata la presenza
sistematica del format rivoluzionario Otpor!, già applicato al
mondo ex sovietico per promuovere l’allargamento NATO, può essere
considerata come un sottoinsieme delle Rivoluzioni Colorate. E’
importante, a questo punto, comprendere quali teorizzazioni sottostiano a
questa tipologia di rivoluzioni e agli agenti che le innescano; ci
riferiremo, perciò, al principale testo del politologo statunitense Gene
Sharp, “From dictatorship to democracy- A conceptual framework for
liberation”, edito nel 2002. In quel manuale (e in altri sia precedenti e
successivi), furono elaborate metodologie non violente e di
disobbedienza civile, utilizzate scientificamente al fine di minare le
dittature con un margine di errore limitato. Non si tratta di teorie di
tipo pacifista ma di vere e proprie tecniche; in quei testi, è pressoché
assente la colorazione politica, tanto da distanziare questo tipo di
rivoluzioni da analoghi moti e teorie novecenteschi. Non solo, è totale
l’assenza di aspetti progressivi che diremo “escatologici”, sorti dalla
secolarizzazione delle tensioni religiose (dall’Illuminismo alla caduta
del Comunismo) e leggendo in filigrana Fukuyama, possiamo percepire
queste rivoluzioni artificiali come uno strumento per procedere
all’omologazione e all’integrazione degli Stati in un sistema
internazionale basato sui principi del libero mercato e della democrazia
liberale. Non è casuale, infatti, che i movimenti rivoluzionari come
Otpor! puntino alla creazione di un assetto liberal-democratico ed è
significativo che rivendichino per se stessi la novità strategica
dell’uso del marketing commerciale (corporate branding) in
politica. La conseguenza non è affatto secondaria perché per la prima
volta si inseriscono elementi cooptati dall’economia di mercato nella
fase dello stato nascente. Il paradigma rivoluzionario classico, con
relativo portato di risorse simboliche, ideali e strategie
otto-novecentesche, viene consegnato definitivamente alla storia dalle
Rivoluzioni Colorate; persiste solamente, senz’altro in parte, la
regolarità a livello verticale, per la quale la rivoluzione viene
realizzata da “un gruppo più o meno omogeneo, che conta molto nella
società ma che è tenuto un gradino sotto dalle istituzioni” (Cardini
2013). Una sostituzione di élite, più che un rimpasto o un riequilibrio nei rapporti di forza.
Ma che cosa sta
accadendo nell’attuale congiuntura internazionale? E’ evidente che la
fase iniziata con le trattazioni di Fukuyama, Hungtinton e Sharp stia
volgendo al termine e che, nonostante la recente ripresa del dibattito
sullo scontro di civiltà, potremmo aspettarci novità libresche ed
evoluzioni politiche. Allo stato attuale, le rivoluzioni colorate,
spinte oltre il cordone sanitario creato intorno alla Russia, sono
andate in corto circuito, senz’altro per la presenza di minoranze russe e
russofone con relativi interessi. Questo è il caso dell’Ucraina e forse
in futuro, di Moldavia e Transnistria, stati di frontiera,
difficilmente ascrivibili al contesto europeo, a differenza di altri
paesi un tempo sottoposti all’influenza russa, come i baltici, quelli
dell’area mitteleuropea, la Polonia. In Medio Oriente e nel Nord Africa,
invece, il format delle rivoluzioni colorate ha evidenziato il
proprio fallimento nel momento in cui si è inserita, non senza
responsabilità equivoche ed ambiguità, la variabile islamista. Nuovi
agenti esterni, target superiori e maggiore complessità dei tessuti
sociali, in un contesto di interdipendenze e multipolarismo effettivo,
hanno protratto in ogni paese la fase di rottura rivoluzionaria,
mutandola in guerra civile od instabilità permanente. Secondo alcuni
commentatori questo tipo di sviluppo, iniziato con la pur fallita
Rivoluzione Verde iraniana del 2009, andrebbe letto nei termini di una
vera e propria “geopolitica del caos”, che appare però oggi ingestibile
ed inarrestabile, come lo possono essere i danni che fanno seguito ad un
disastro nucleare. Siria ed Ucraina, insieme alla Libia, appaiono, in
questo senso, realtà sintomatiche di una vera e propria Černobyl’
politica internazionale.
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