di Rodolfo Casadei Fonte: Tempi
Sveglia Europa, non è Putin il nostro nemico (e sull’Ucraina perfino Solzenicyn la pensava come lui)
Sull’indipendenza
dell’Ucraina Aleksandr Solzenicyn la pensava nello stesso modo di
Mikhail Gorbaciov e di Vladimir Putin oggi: un fatto da accettare come
inevitabile, ma non secondo i confini decisi in epoca sovietica. È
quanto emerge dalla riesumazione delle lettere scambiate fra il premio
Nobel per la letteratura e l’intellettuale ucraino Sviatoslav
Karavanskij alla vigilia dell’indipendenza di Kiev. Solzenicyn
sperava che fra Russia e Ucraina sarebbe rimasta una forma di unione,
ma era disposto ad accettare la secessione di Kiev. Non però nei confini
della repubblica sovietica. «Malgrado tutta la mia passione», scriveva
il grande dissidente, «non obietto alla separazione dell’Ucraina… Ma se
si tratta veramente dell’Ucraina. Ora che nell’Ucraina Occidentale
vengono abbattuti i monumenti a Lenin (e lo meritano!), perché gli
ucraini occidentali più di tutti gli altri vogliono che l’Ucraina abbia
proprio i confini leniniani, ossia quelli regalati alla stessa dal caro
Lenin che, cercando di rabbonirla in qualche modo per la privazione
dell’indipendenza, aggiunse ad essa territori che non erano mai stati
ucraini, ossia la Novorossija (Russia del Sud), Donbass (per isolare il
bacino del fiume Donets dalle influenze “controrivoluzionarie” della
regione del Don) e parti rilevanti della riva sinistra del Dnepr? (E
Krusciov in un batter d’occhio “regalò” anche la Crimea.) Ed ora i
nazionalisti ucraini difendono ferreamente proprio questi “sacri”
confini leniniani?». La lettera non ebbe risposta.
La
Russia non è in guerra con l’Unione Europea, Donetsk non è Danzica,
Putin non è Hitler e una riedizione del 1939 non è alle porte sul nostro
continente. L’accordo di massima per un cessate il fuoco permanente
nell’Ucraina orientale che Poroshenko e Putin hanno convenuto
telefonicamente il 3 settembre scorso – naturalmente la Russia ha
smentito, ma tutti capiscono come sono andate le cose – è lì a
dimostrare che gli attori del conflitto sono dotati di razionalità, che
la geopolitica non è un’opinione e che finché esisteranno gli stati il
realismo sarà sempre un approccio migliore dell’idealismo e
dell’affermazione di princìpi che normalmente sono la copertura
ideologica di interessi e volontà di potenza.
L’evocazione
delle tragedie della Seconda Guerra mondiale e dell’aggressività che fu
caratteristica dell’Unione Sovietica è comprensibile sulla bocca del
presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, della
presidente lituana Dalia Grybauskaite, o degli intellettuali polacchi
(fra i quali il grande Andrzej Wajda) che hanno firmato un appello
intitolato enfaticamente “Da Danzica a Donetsk, 1939-2014”.
Comprensibile a motivo dei traumi storici che i loro paesi hanno patito
per mano sovietica e prima ancora zarista, ma non giustificabile. Perché
a reagire con isteria e con iperboli alla crisi attuale si rischia di
ripetere non gli errori degli anni Trenta che portarono alla guerra nel
1939, ma quelli descritti da Christopher Clark nel suo The Sleepwalkers, che portarono l’Europa a un conflitto le cui proporzioni superarono ogni immaginazione nel 1914.
Putin
non è Hitler e nemmeno Stalin o Breznev. Non promuove un’ideologia di
supremazia razziale e nemmeno una rivoluzionaria universale rivolta a
tutti i popoli come i suoi predecessori al Cremlino. Non è a capo di una
macchina militare e di un apparato industriale senza rivali in Europa,
come furono rispettivamente l’Unione Sovietica e la Germania del Terzo
Reich. La Russia è una ex potenza globale che lotta per restare almeno
potenza regionale. La sua spesa militare è pari a 87,8 miliardi di
dollari, cioè meno di quelle di Francia e Regno Unito sommate insieme
(119,1 miliardi di dollari) e meno di un settimo di quella degli Stati
Uniti (640 miliardi di dollari).
La
Russia è un paese in pieno declino demografico, nel quale la
popolazione è scesa da 150 a 143,5 milioni di abitanti fra il 1990 ed
oggi, ed è notevolmente invecchiata. Il suo prodotto interno lordo, che
dipende per la maggior parte dall’estrazione di materie prime
energetiche, è uguale a quello dell’Italia, che ha meno della metà dei
suoi abitanti ed è 57 volte più piccola.
Per
frenare questo declino ed evitare lo scivolamento del paese nella
condizione di stato fallito dotato di arsenale nucleare – condizione che
si stava realizzando negli anni della presidenza Eltsin – Vladimir
Putin ha ricostituito la “verticale del potere”, che prima di lui
avevano realizzato in modi diversi lo zarismo e il comunismo bolscevico,
e ha concepito la creazione di un’Unione Euroasiatica che avrebbe
riunito alcuni degli stati nati dal dissolvimento dell’Unione Sovietica
attorno al polo d’attrazione rappresentato dalla Federazione Russa.
Il
progetto ha subìto un colpo d’arresto formidabile nel febbraio scorso,
quando la cacciata del presidente Yanukovich da Kiev ha azzerato le
possibilità che l’Ucraina entrasse a far parte della nuova associazione
regionale. Al contrario: con l’ascesa al potere dei partiti
filo-europeisti e anti-russi, Putin si è trovato di fronte alla
prospettiva che l’Ucraina, da potenziale granaio e laminatoio
dell’Unione Euroasiatica, diventasse un avamposto della Nato a soli 500
chilometri da Mosca. Al summit della Nato del 2002 il documento finale
conteneva la seguente frase: «Georgia e Ucraina entreranno a far parte
della Nato».
Il reale disegno di zar VladimirEcco
allora che le iniziative aggressive attuate dalla Russia da marzo in
avanti e che vengono percepite come azioni espansionistiche (annessione
della Crimea, sostegno ai ribelli dell’autoproclamata Repubblica
popolare del Donbass, intervento militare diretto benché mascherato)
vanno in realtà lette come reazioni dettate dalla volontà di contenere
una bruciante sconfitta: l’uscita imprevista e irreversibile
dell’Ucraina dalla sfera di influenza russa. La Crimea e il Donbass, per
il quale Putin oggi chiede uno statuto speciale che sta a cavallo fra
l’autonomia e l’indipendenza, sono i premi di consolazione del torneo
geopolitico che ha consegnato all’Occidente la vincita più ambita:
l’Ucraina.
Per
comprendere il valore intrinseco di tale primo premio basta conoscere
il significato del suo nome, cioè “terra di frontiera”. Quegli ucraini
che affermano che il governo Putin ha osteggiato il movimento del Maidan
di Kiev nel timore che il suo successo rappresentasse un esempio per i
cittadini russi e li spingesse a ribellarsi ai loro governanti,
dimostrano di conoscere poco i loro cugini. I quali sono scesi in piazza
contro il loro governo due anni prima che lo facessero gli ucraini
(proteste di Mosca del dicembre 2011), ma dopo l’annessione della Crimea
alla Russia hanno appoggiato la decisione di Putin con tassi di
consenso dell’83 per cento che persistono fino ad oggi.
Il popolo russo si sarebbe ribellato a Putin non per aver aperto gli occhi a seguito del successo della rivoluzione del Maidan ucraino, ma per punirlo di non aver fatto pagare a caro prezzo agli ucraini il loro strappo dallo storico rapporto con Mosca.
Il popolo russo si sarebbe ribellato a Putin non per aver aperto gli occhi a seguito del successo della rivoluzione del Maidan ucraino, ma per punirlo di non aver fatto pagare a caro prezzo agli ucraini il loro strappo dallo storico rapporto con Mosca.
La dottrina su cui Putin basa la sua politica di rivendicazione del riconoscimento della Russia come potenza regionale è
pericolosa per alcuni paesi che confinano con la Federazione Russa, ma
non per l’Unione Europea nel suo complesso. Diversamente dai suoi
predecessori comunisti, non promuove un’ideologia universalista
suscettibile di raccogliere consensi all’interno delle classi sociali
dei paesi occidentali. In passato milioni di italiani, francesi,
spagnoli, eccetera identificarono i propri interessi politici con quelli
geopolitici del governo che sedeva al Cremlino, e questo mise in serie
difficoltà l’alleanza politico-militare occidentale. Oggi questo non può
più accadere: Mosca presenta la protezione dei russi etnici come il
valore che guida la sua politica estera nei confronti dei paesi vicini.
L’alternativa
di civiltà che Putin intende promuovere attraverso l’Unione
Euroasiatica è centrata sui valori del cristianesimo ortodosso, che
nell’Europa occidentale e sud-occidentale è praticamente inesistente.
L’unica area dove Russia e Unione Europea potrebbero ancora competere è
rappresentata dai Balcani, ma lì tutti i paesi tranne la Bosnia e la
Serbia (e il Kosovo e la Macedonia, che non sono sensibili alle sirene
russe) hanno già aderito alla Nato, perciò la competizione sarà molto
circoscritta.
Putin
dunque ha già definito in termini restrittivi l’area su cui la Russia
amerebbe esercitare un’egemonia regionale. Dà definitivamente per persa
l’Ucraina, e si accontenta delle briciole rappresentate da Crimea e
Donbass. Ha annesso la prima, ma non farà lo stesso col secondo. La
questione del Donbass deve restare aperta, a costo di vedere aggiungersi altre sanzioni economiche contro
la Russia a quelle che America ed Europa hanno già deciso, fino a
quando Mosca non otterrà l’obiettivo che le sta più a cuore:
l’assicurazione formale che l’Ucraina non entrerà mai a far parte della
Nato.
Che
i paesi più importanti dell’Unione Europea (Germania, Francia, Italia,
Regno Unito) siano disponibili a scendere a patti con la Russia di Putin
sulla base di un accordo che vedrebbe Mosca dare semaforo verde
all’adesione dell’Ucraina al club di Bruxelles e mettere fine alla
destabilizzazione delle regioni orientali del paese in cambio del
riconoscimento dell’annessione della Crimea alla Russia e dell’impegno
scritto a non fare dell’Ucraina un membro della Nato, è un segreto di
Pulcinella.
Fare come i finlandesiPolacchi,
svedesi e baltici possono alzare i toni finché vogliono, invocare il
soccorso europeo all’Ucraina aggredita finché vogliono, ma due fatti
duri come la pietra sono sotto gli occhi di tutti. Il primo è che i
paesi dell’Unione Europea aderenti alla Nato non hanno nessuna
intenzione di essere trascinati dentro a un conflitto militare sul
territorio europeo, né direttamente inviando truppe a fianco dei
governativi ucraini né indirettamente armandoli e fornendo logistica.
Per fare la guerra ci vogliono le armi e la voglia di usarle, e
all’Europa mancano le une e l’altra. I bilanci militari dei paesi
europei della Nato sono in costante diminuzione: ai tempi della Guerra
fredda la loro spesa militare equivaleva al 50 per cento di quella
totale dell’Alleanza, oggi arriva appena al 25 per cento. Gli Stati
Uniti di Obama hanno tagliato i bilanci militari, i paesi europei di
più. Solo Grecia, Estonia e Regno Unito spendono più del 2 per cento del
Pil per il settore militare, e presto Londra scenderà sotto questo
standard, fissato in sede Nato.
Dall’altra
parte la Russia conosce altrettanto bene la sua debolezza: non occuperà
mai l’Ucraina o un altro paese confinante, anche se Putin ha fatto
intendere che sarebbe possibile alle sue forze armate, perché le
occupazioni militari sono destinate a fallire, a creare voragini nei
bilanci e a consegnare alla damnatio memoriae i politici che le vollero:
le lezioni dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan negli anni
Ottanta e di quella dell’Iraq ai tempi di Bush nel decennio scorso non
sono state dimenticate né a Mosca né a Washington. Tutto quello che
Putin ha in mente è di mantenere destabilizzata l’Ucraina orientale, se
necessario correndo in soccorso (in incognito) dei secessionisti quando
questi si trovano a mal partito, finché Bruxelles e Kiev non si
decideranno a intavolare vere trattative con la Russia.
Che
ai pesi massimi dell’Europa la prospettiva del compromesso geopolitico
non dispiaccia è noto, la vera novità è che apparentemente anche il
presidente Poroshenko sta convergendo su questa ipotesi. Resasi conto
che Unione Europea e Stati Uniti sono disponibili a un’escalation di
sanzioni economiche antirusse ma non a un’escalation militare, la nuova
leadership ucraina sembra accedere all’idea della trattativa a tutto
campo con Mosca. Dalla quale potrebbe uscire, fra le soluzioni della
crisi, quella che il New York Times ha già definito la “finlandizzazione” dell’Ucraina.
Ai
tempi della Guerra fredda in Europa c’erano due paesi nei quali,
diversamente da quanto avveniva nel blocco comunista, si praticavano
l’economia di mercato e la democrazia liberale rappresentativa, ma senza
che ciò sfociasse nella loro adesione alla Nato. Questi due paesi erano
la Finlandia e l’Austria, militarmente neutrali ed esterni anche
all’Unione Europea (vi aderirono nel 1994, a Guerra fredda terminata da
cinque anni). La loro perdita di autonomia nella politica estera era
largamente compensata dalla onesta rinuncia dei sovietici a perseguire
progetti di destabilizzazione dentro ai loro confini. Un beneficio di
cui non godettero paesi come l’Italia e la Germania, i cui terroristi di
estrema sinistra trovarono sempre complicità nei paesi del Patto di
Varsavia.
Auspicare
la finlandizzazione dell’Ucraina è il migliore augurio che si possa
fare ai rivoluzionari genuini (non quelli di estrema destra) del Maidan
di Kiev: in un’Ucraina non più percepita da Mosca come minaccia
strategica, potranno sperimentare e sviluppare i “valori europei” per i
quali hanno messo in gioco le proprie vite nell’inverno scorso senza
temere interferenze russe. Dovranno occuparsi solo delle resistenze
interne.
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