di Daniela Coli Fonte: istitutodipolitica
Il
summit della Nato reduce dagli insuccessi in Afghanistan, Iraq e Libia
poteva essere l’occasione di una riforma o addirittura di una scomparsa
della Nato, come auspica Sergio Romano, per il quale l’Unione europea è
prigioniera della Nato e non può sviluppare una propria politica estera
autonoma dagli Stati Uniti. E’ difficile però immaginare un’Unione
europea di ventotto paesi diversi per storia, interessi e geopolitica
con una politica unica per Russia, Medio Oriente ed Africa. Ventotto
paesi diversi che, in definitiva, affidano la direzione della propria
difesa agli Stati Uniti possono anche essere giocati l’uno contro
l’altro, o gli uni contro gli altri, se conviene al più forte. Basta
pensare alla Libia, con francesi e inglesi alleati con Obama sotto le
insegne della Nato a bombardare la Libia per mandare via gli italiani da
un paese con cui l’Italia aveva appena firmato un trattato di
collaborazione, come la Francia con l’Algeria. La Libia è la porta
dell’Africa e destabilizzare la Libia significa destabilizzare l’Africa:
non c’è da stupirsi se adesso l’Africa è insidiata dal terrorismo
islamico e vari stati rischiano di trasformarsi in una nuova Somalia e
in una nuova Libia. Il pericolo è ritrovarci con le bandiere nere di
ISIS in casa, mentre gli Stati Uniti sono lontani, protetti da due
oceani. L’Unione europea è troppo debole per avere una politica estera
autonoma, da nord a sud è un’immensa base per ogni impresa americana: è
diventata il cortile di casa americano, mentre l’America Latina si è
emancipata, ha buoni rapporti con SCO (la Shanghai Cooperation
Organization il cui summit si tiene il prossimo 11-12 settembre)
capeggiata da Russia e Cina, e può addirittura vantare una piccola
“reconquista” negli stati meridionali dell’America del Nord, dove lo
spagnolo è ormai la seconda lingua.
Il
summit Nato di Newton si è concluso con le dichiarazioni di Obama di
una coalizione per distruggere ISIS e di cinque basi di intervento nei
Paesi baltici per difendere l’Unione europea dall’imperialismo di Putin,
anche se il presidente US ha dichiarato che non saranno inviati soldati
americani nelle aeree di conflitto, ma solo aerei e droni. Il ministro
della difesa britannico Philip Hammond ha precisato subito che per ora
non vi è alcun impegno UK per attacchi aerei su ISIS. È lo stesso
Hammond che nel giugno 2013, in visita in Afghanistan, disse che l’Iraq
era il Vietnam britannico e l’UK non voleva altre guerre. Dopo il G8 in
Irlanda, dove solo il nuovo Hitler Putin si oppose alla proposta di
Obama di bombardare la Siria, il 29 agosto 2013 il parlamento britannico
votò contro l’intervento in Siria: non accadeva dal 1872 che un governo
britannico fosse battuto sulla guerra in parlamento. Poi è venuto il
ciclone Farage alle europee a minacciare i partiti atlantici tory e
laburista e un importante leader tory ha recentemente defezionato per il
UKIP. Se teniamo conto degli interventi di Patrick Cockburn,
corrispondente dal Medio Oriente dal 1979 per il Financial Times e ora per l’Independent,
autorevole voce londinese, qualcosa sta muovendosi in Gran Bretagna.
Per Cockburn l’invasione dell’Iraq del 2003 ha cambiato l’equilibrio
globale del potere e destabilizzato l’intero Medio Oriente. Nei giorni
inebrianti della caduta di Saddam, gli americani dichiararono che dopo
l’Iraq sarebbero caduti l’Iran e la Siria, provocando la mobilitazione
iraniana e siriana a sostegno di tutti i nemici dell’America nell’area.
Come se non bastasse, sciolsero l’esercito iracheno, che non aveva
deciso di morire per Saddam e non aveva combattuto, innescando il
conflitto tra sunniti, sciti e curdi. La Siria, in guerra civile da tre
anni, è un pantano molto più profondo e pericoloso di quello iracheno,
perché la guerra civile siriana ha devastato tutta la regione e non si
comprende quale sarà il nuovo assetto del Medio Oriente dopo la fine
dell’ordine Sykes-Picot: per ora sembrano trarne vantaggio solo i curdi
sparsi tra Iraq, Siria, Turchia e Iran. In Siria hanno vissuto
tranquillamente per secoli sciti, sunniti, cristiani e perfino ebrei.
L’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) è il risultato della guerra in
Iraq e dei tentativi americani e dei loro alleati di far cadere Assad,
armando ribelli che adesso decapitano giornalisti americani. Nonostante
gli attacchi aerei, sarà difficile fermare ISIS per il corrispondente
britannico e anche un’azione della Nato insieme ad Assad è difficile
riesca. Per Cockburn non è una guerra di religione, ma di YouTube. Sono i
video postati su YouTube da attivisti politici e rilanciati dai media
occidentali a caccia di immagini e notizie sensazionali che alimentano
l’esercito di ISIS, il cui obiettivo è affermarsi anche in Europa e in
Cina. I tanti giovani britannici di origine araba che vanno a combattere
per ISIS non sono il risultato del Corano e di iman malefici. Sono il
risultato di processi psicologici simili a quelli descritti nel Fondamentalista riluttante di
Mohsin Hamid: il giovane pakistano Changez, PhD a Princeton,
superpagato analista finanziario di Wall Street, riscopre l’identità
pakistana e musulmana nella New York post-9/11 terrorizzata da ogni
faccia araba, che lo umilia trattandolo come un terrorista. Changez si
sente diverso, è diverso, recupera la sua identità e vola in Pakistan.
Nell’isteria della guerra globale al terrorismo possiamo immaginare
quali effetti possano avere avuto sui giovani cittadini britannici,
francesi, italiani, tedeschi o americani di origini araba i video della
prigione di Abu Graib, dei piloti americani che da un elicottero Apache
sparano su civili iracheni nelle strade di Baghdad o dei soldati
americani che urinano su talebani morti in Afghanistan, senza contare le
campagne di droni che uccidono civili come se fossero animali. Come
sostiene Giovanni Sartori, la Gran Bretagna non è diventata multietnica e
multiculturale per buonismo, ma per rifare l’impero. Un’idea antica:
l’impero ottomano aveva i giannizzeri: rapiva bambini cristiani nei
Balcani, soprattutto in Albania, li cresceva ed educava come ottomani e
poi li mandava a uccidere nelle terre d’origine. I giovani britannici ed
europei di origine araba che vanno a combattere per ISIS, come nel 2003
partivano per combattere in Iraq, non vogliono essere i giannizzeri
dell’impero americano. ISIS non è una solo una sfida militare, ma, come
sostiene Ernesto Galli della Loggia (Il Corriere della Sera, 7
settembre 2014), anche una sfida al multiculturalismo e ai valori
americani, considerati astrattamente universali e da imporre in ogni
caso a tutto il globo. È la sfida all’impero globale americano, ai suoi
valori e miti, che noi europei accettiamo passivamente, trasformandoli
subito in leggi sacre. Il video del giornalista americano Foley,
sgozzato da un britannico di origine araba e i numerosi cittadini
europei di origine araba (non solo britannici, ma anche francesi,
italiani, tedeschi e americani) combattenti nelle file ISIS mostra il
volto del multiculturalismo in Europa. I tanti video di giovani
cittadini europei che invitano alla jihad fratelli e amici in Europa,
rivelano il fallimento del multiculturalismo.
Inutile
dare la colpa a Obama, accusandolo di non avere strategia: Obama si è
comportato come ogni presidente americano, si è trovato ad affrontare il
ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan e i problemi delle amministrazioni
precedenti. Ha usato droni invece di aerei, ha bombardato dovunque in
Afghanistan, Medio Oriente e Africa, ha ideato le arab springs o le twitter revolutions per
scardinare l’assetto Sykes-Picot in Medio Oriente, ha attaccato la
Siria armando ribelli islamici, ha distrutto la Libia e ora scarica
droni in Somalia e Nigeria su terroristi islamici: ha prodotto il caos.
Adesso c’è anche la Russia nel mirino americano. Pepe Escobar, l’autore
di Globalistan: how the globalized world is dissolving into liquid war
(2007), scrive spesso che gli Stati Uniti sono l’impero del caos. Nel
caos, però, può esserci una strategia, una strategia pericolosa per
l’Europa, perché gli Stati Uniti possono sempre ritirarsi protetti da
due oceani, mentre l’Europa non può certo cambiare posizione geografica.
L’Europa deve smettere di fare la bella addormentata in attesa del
principe azzurro: può solo salvarsi, come ha fatto tante volte nella sua
storia secolare, ritornando al realismo politico, perché la storia –
sbagliava Fukuyama – non è finita.
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