Fonte: L'intellettuale dissidente
Il
primo a coniare l’espressione “Tecnica del colpo di Stato” fu lo
scrittore italiano Curzio Malaparte nel suo saggio pubblicato nel 1931
in Francia. L’idea di realizzare un’opera che tracciasse una teoria
generale (e universale) sulla conquista del potere gli venne negli Anni
Venti quando, addetto culturale presso l’ambasciata italiana a
Varsavia, assistette in prima persona all’assedio dell’Armata Rossa
governata da Trotskij che tentò, invano, di espugnare la città. Un
testo tagliente, un’analisi impietosa, che coglie il fenomeno
“rivoluzionario” – prescindendo dalle ideologie -, come il
rovesciamento di un sistema politico volto all’edificazione di un nuovo
ordine. Nel mondo occidentale sono emersi secondo lo scrittore toscano
i “professionisti del colpo di Stato”, uomini capaci di sovvertire il
sistema e imporne uno nuovo qualunque sia il Paese di riferimento, che
sia retto dall’anarchia oppure da un regime estremamente stabile. La
rivoluzione è un processo che si porta a termine in rapporto alla
capacità, volontà, organizzazione e determinazione delle forze
rivoluzionarie. Questa è la tesi di Malaparte.
I
vertici statunitensi dopo lo smantellamento dell’Unione Sovietica
hanno fatto tesoro del manoscritto malapartiano rinnovandone il
pensiero (da “tecnica del colpo di Stato” hanno idato una sorta di
“tecnica della rivoluzione colorata”) in un mondo moderno retto dai
mass media e la tecnologia. Secondo i neocon per legittimare
il ribaltamento di un governo sfavorevole ai propri interessi ed
insediarne uno funzionale all’ordine occidentale è necessario far
montare la protesta falsamente dal basso e calare l’homo novus
velatamente dall’alto. Una forma d’imperialismo mascherato che si
articola su alcuni elementi imprescindibili come le organizzazioni non
governative promotrici della democrazia, gli intellettuali di regime,
gli studenti, i mass media, il “marketing rivoluzionario” e i servizi
segreti. I primi laboratori di queste “rivoluzioni colorate” furono gli
Stati post-sovietici: dal 1989 all’attuale crisi ucraina si sono
registrate infatti una serie di capovolgimenti estremamente simili tra
loro (ancora più rilevanti sono i nomi assegnati dalla stampa e
storiografia occidentale). Tra queste c’è la rivoluzione di velluto in
Cecoslovacchia (novembre-dicembre 1989), la rivoluzione del 5 ottobre in
Serbia (2005), la rivoluzione delle Rose in Georgia (2003), la
rivoluzione Arancione in Ucraina (2004), la rivoluzione dei Tulipani in
Kirghizistan (2005). Altre “rivoluzioni colorate” si sono poi
registrate in altri Paesi, riuscendo in maniera parziale o fallendo
completamente ad esempio la purple revolution in Iraq nel 2003, la
rivoluzione dei Cedri in Libano (2005), la rivoluzione Verde in Iran
(2009), o ancora le recenti primavere arabe in Nordafrica e Medio
Oriente.
La tecnica della
“rivoluzione colorata”, come gli obiettivi del resto (destabilizzare o
capovolgere una nazione sovrana scomoda all’ordine occidentale), è
sempre la stessa: le organizzazioni non governative (Amnesty
International, Ocse, ecc.) pilotate e finanziate dagli istituti
finanziari occidentali (Soros Foundation, ecc.) trovano il pretesto per
alimentare lo scontro (brogli elettorali come in Ucraina nel 2004
oppure l’omofobia di Vladimir Putin ai giochi invernali di Sochi). I mass media
creano consenso nel blocco statunitense, delegittimano il presidente
di turno (Saddam, Putin, Bashar Al Assad, ecc.), e il più delle volte
lo dipingono come un sanguinario. Le associazioni studentesche
“chiedono” riforme attraverso un marketing politico sottile: si
costruiscono di fatto attorno a un colore, un logo ben identificabile e
slogan evocativi e sessantotteschi (“Otpor!” in Serbia che significa
“Resistenza!”), in maniera da rendere le manifestazioni di grande
impatto (vedi in Iran o attualmente in Venezuela). Gli intellettuali e
le personalità di regime arrivano in soccorso dei “rivoltosi” per dare
“autorevolezza” ai sollevamenti (vedi la recente visita del filosofo
francese Bernard Henri Levy a Kiev in sostegno dei manifestanti pro-Ue,
l’atto provocatorio dell’ex deputato italiano Vladimir Luxuria a
Sochi, l’esaltazione delle “Pussy Riot” in Russia). Infine dopo le
manipolazioni interne, le pressioni di governo e il martellamento
mediatico, i “tecnici della rivoluzione” passano la palla, se
necessario, ai servizi segreti (Golpe in Venezuela contro Chavez
nell’aprile del 2002) alle Nazioni Unite (caso siriano) o alla Nato
(Libia di Gheddafi). Il piatto (riscaldato) è servito, la
pianificazione del nuovo ordine rivoluzionario è in atto.
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