sabato 13 settembre 2014

Tecnica della rivoluzione colorata

di Sebastiano Caputo

 Fonte: L'intellettuale dissidente

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Il primo a coniare l’espressione “Tecnica del colpo di Stato” fu lo scrittore italiano Curzio Malaparte nel suo saggio pubblicato nel 1931 in Francia. L’idea di realizzare un’opera che tracciasse una teoria generale (e universale) sulla conquista del potere gli venne negli Anni Venti quando, addetto culturale presso l’ambasciata italiana a Varsavia, assistette in prima persona all’assedio dell’Armata Rossa governata da Trotskij che tentò, invano, di espugnare la città. Un testo tagliente, un’analisi impietosa, che coglie il fenomeno “rivoluzionario” – prescindendo dalle ideologie -, come il rovesciamento di un sistema politico volto all’edificazione di un nuovo ordine. Nel mondo occidentale sono emersi secondo lo scrittore toscano i “professionisti del colpo di Stato”, uomini capaci di sovvertire il sistema e imporne uno nuovo qualunque sia il Paese di riferimento, che sia retto dall’anarchia oppure da un regime estremamente stabile. La rivoluzione è un processo che si porta a termine in rapporto alla capacità, volontà, organizzazione e determinazione delle forze rivoluzionarie. Questa è la tesi di Malaparte.
I vertici statunitensi dopo lo smantellamento dell’Unione Sovietica hanno fatto tesoro del manoscritto malapartiano rinnovandone il pensiero (da “tecnica del colpo di Stato” hanno idato una sorta di “tecnica della rivoluzione colorata”) in un mondo moderno retto dai mass media e la tecnologia. Secondo i neocon per legittimare il ribaltamento di un governo sfavorevole ai propri interessi ed insediarne uno funzionale all’ordine occidentale è necessario far montare la protesta falsamente dal basso e calare l’homo novus velatamente dall’alto. Una forma d’imperialismo mascherato che si articola su alcuni elementi imprescindibili come le organizzazioni non governative promotrici della democrazia, gli intellettuali di regime, gli studenti, i mass media, il “marketing rivoluzionario” e i servizi segreti. I primi laboratori di queste “rivoluzioni colorate” furono gli Stati post-sovietici: dal 1989 all’attuale crisi ucraina si sono registrate infatti una serie di capovolgimenti estremamente simili tra loro (ancora più rilevanti sono i nomi assegnati dalla stampa e storiografia occidentale). Tra queste c’è la rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia (novembre-dicembre 1989), la rivoluzione del 5 ottobre in Serbia (2005), la rivoluzione delle Rose in Georgia (2003), la rivoluzione Arancione in Ucraina (2004), la rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan (2005). Altre “rivoluzioni colorate” si sono poi registrate in altri Paesi, riuscendo in maniera parziale o fallendo completamente ad esempio la purple revolution in Iraq nel 2003, la rivoluzione dei Cedri in Libano (2005), la rivoluzione Verde in Iran (2009), o ancora le recenti primavere arabe in Nordafrica e Medio Oriente.
La tecnica della “rivoluzione colorata”, come gli obiettivi del resto (destabilizzare o capovolgere una nazione sovrana scomoda all’ordine occidentale), è sempre la stessa: le organizzazioni non governative (Amnesty International, Ocse, ecc.) pilotate e finanziate dagli istituti finanziari occidentali (Soros Foundation, ecc.) trovano il pretesto per alimentare lo scontro (brogli elettorali come in Ucraina nel 2004 oppure l’omofobia di Vladimir Putin ai giochi invernali di Sochi). I mass media creano consenso nel blocco statunitense, delegittimano il presidente di turno (Saddam, Putin, Bashar Al Assad, ecc.), e il più delle volte lo dipingono come un sanguinario. Le associazioni studentesche “chiedono” riforme attraverso un marketing politico sottile: si costruiscono di fatto attorno a un colore, un logo ben identificabile e slogan evocativi e sessantotteschi (“Otpor!” in Serbia che significa “Resistenza!”), in maniera da rendere le manifestazioni di grande impatto (vedi in Iran o attualmente in Venezuela). Gli intellettuali e le personalità di regime arrivano in soccorso dei “rivoltosi” per dare “autorevolezza” ai sollevamenti (vedi la recente visita del filosofo francese Bernard Henri Levy a Kiev in sostegno dei manifestanti pro-Ue, l’atto provocatorio dell’ex deputato italiano Vladimir Luxuria a Sochi, l’esaltazione delle “Pussy Riot” in Russia). Infine dopo le manipolazioni interne, le pressioni di governo e il martellamento mediatico, i “tecnici della rivoluzione” passano la palla, se necessario, ai servizi segreti (Golpe in Venezuela contro Chavez nell’aprile del 2002) alle Nazioni Unite (caso siriano) o alla Nato (Libia di Gheddafi). Il piatto (riscaldato) è servito, la pianificazione del nuovo ordine rivoluzionario è in atto.

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