sabato 27 settembre 2014
Niente Femen, siamo donne
DI ALESSANDRA COLLA
alessandracola.net
Devo rassegnarmi: il discusso movimento “femminista” delle Femen continua a riempire le pagine dei giornali. Avrei preferito che il clamore mediatico si placasse un po’ prima di parlarne anch’io, ma pare che la faccenda sia destinata ad andare per le lunghe. Ora, ci sono due modi di affrontare un tema: buttarlo in caciara, oppure (tentare di) analizzarlo.
La butto in caciara subito, così mi tolgo il pensiero e possiamo andare avanti. Mai piaciute, le Femen: mi sembrano sguaiate, e trovo che stiano al femminismo come un prete pedofilo sta a Matteo 19:13-15.
«Lasciate che i piccoli vengano a me» (Pietro Ivaldi, "Gesù fra i bambini") Adesso però parliamo di cose serie.
Le Femen, dunque, sono un gruppo di avvenenti fanciulle ucraine che sostengono di battersi in nome e per conto delle donne oppresse applicando un metodo di lotta singolare e mediaticamente efficacissimo benché inflazionato (il che suggerisce considerazioni poco lusinghiere sul tipo di pubblico che ne resta impressionato): fanno vedere le tette.
Poiché la cosa che più mi è rimasta impressa della stagione lontana in cui le ragazze dei miei tempi vestivano a fiori e scrivevano in rosa sui muri di austeri edifici “Dopo Marx, aprile” è il discorso sulla dignità della donna, questo fatto di esibirsi come pezzi di carne al mercato non mi ha mai convinto un granché. (Attenzione, perché questa parola e questo concetto — dignità — ricorrerà molte volte nelle righe seguenti: e non sarà una sciatteria stilistica).
Ma siccome sui media e in particolare sul web un sacco di gente, negli ultimi tempi, ha cominciato a esprimere approvazione e simpatia per queste guerriere discinte, il tarlo dell’auto-disistima ha cominciato a rodermi.
A fermarlo, la frase illuminante della sociologa marocchina Fatema Mernissi (in Le harem et l’Occident, Albin Michel 2001, p. 112 ), riportata da Mona Chollet nel suo ottimo articolo «Femen partout, féminisme nulle part» — “Femen ovunque, femminismo da nessuna parte”: « I musulmani sembrano provare un senso di potenza virile velando le loro donne, e gli occidentali svelandole» — dove l’originale francese “dévoiler” ha, come in italiano, il duplice significato di “togliere (materialmente) il velo” e “rendere pubblico qualcosa che non dovrebb esserlo”.
Sulla base di questa osservazione, Chollet sviluppa il suo scritto: e denuncia la banalizzazione del miglior femminismo attraverso quella che, per esempio, le Donne Musulmane contro le Femen chiamano senza mezzi termini «spazzatura coloniale e razzista camuffata da “liberazione delle donne”» per opera di un gruppo di «bianche, magre, fisicamente non-disabili e disposte a spogliarsi solo per avere l’attenzione della stampa».
Ma se le donne musulmane hanno avuto il coraggio di chiamare le cose col loro nome, dove sono le femministe europee? E perché sembrano accettare il messaggio pericoloso che una donna, per farsi ascoltare, debba scendere a compromessi con la propria dignità? Una parziale risposta — «il rispetto può generarsi solo dalla dignità» — sembra arrivare, una volta ancora, dalla Francia: dove sono le Antigones, fanciulle anch’esse avvenenti ma vestite, a rivendicare un nuovo modo di essere donne e un nuovo modo di porsi nei confronti del maschile (è troppo presto per pronunciarsi sul progetto francese: se son rose…).
Per quanto mi riguarda, ho detto prima che a mio avviso le Femen col femminismo non c’entrano un beato alcunché: e lo ripeto senza fatica, poiché nel momento in cui una donna che si pretende femminista — ovvero impegnata nel movimento per la liberazione della donna — dichiara convintamente che «viviamo sotto il dominio del maschio, e [la nudità] è il solo modo di provocarlo, di attirare la sua attenzione» [ Femen’s topless warriors start boot camp for global feminism, The Guardian, 22 settembre 2012], mi sento di dichiarare altrettanto convintamente che il sistema patriarcale si è aggiudicato un’altra vittoria.
Perché il punto centrale — e provo un po’ d’imbarazzo nel dirlo, giacché qui si tratta o si dovrebbe trattare di fondamentali — è questo: non è la donna a dover scendere sul terreno dell’immaginario ovvero del potere maschile, ma è l’uomo che deve abbandonare il suo arroccamento e imparare una buona volta a percepire la donna come entità compiuta in se stessa e per se stessa dotata di identica dignità valoriale, indipendentemente da accidenti come l’avvenenza, la giovinezza o la disponibilità sessuale. Nessuna donna deve essere costretta a fare affidamento sulla propria esteriorità per vedere riconosciuta anche la propria interiorità: soprattutto, nessuna donna deve essere costretta ad adeguare la propria esteriorità alle esigenze altrui, e segnatamente a quelle maschili.
Mostrare le proprie grazie attira sì l’attenzione, ma si tratta di un’attenzione momentanea, mediatica cioè spettacolare, che impedisce a chi guarda di cogliere l’essenza del messaggio che si vorrebbe veicolare; subdolamente, è un altro il messaggio che passa, ed è un messaggio totalmente altro: non importa quello che dici, importa che tu suggerisca la tua disponibilità sessuale, in cambio della quale io — come maschio fruitore o come femmina imitatrice — (forse) ti presterò ascolto. Del resto il seno femminile è il più appariscente dei caratteri sessuali secondari, e la sua esibizione (in contesti diversi dall’allattamento estemporaneo o dalla banalizzazione del “prendere il sole”) ha un significato inequivocabile. Non casualmente, l’esibizione delle nudità rientra nella definizione di “atti osceni in luogo pubblico”: dove “osceno” è appunto ciò che dev’essere riservato alla “scena”, ovvero a talune rappresentazioni teatrali, ma non può trovare posto nella quotidianità civile e sociale [Javier Uria Varela, La etimologia de latin obscenus, in: Aa. Vv., Homenaje a Juan Uria Riu, Universidad de Oviedo, Servicio de publicaciones, Oviedo 1997].
Ancora, Chollet cita un altro passo illuminante dell’intervista rilasciata al “Guardian” da Inna Shevchenko, leader e portavoce di Femen: «Il femminismo classico è una vecchia malata che non cammina più. È confinato nel mondo a parte delle conferenze e dei libri». Chollet, sarcasticamente, commenta che Shevchenko ha ragione, perché «le vecchie malate non sono mica belle da guardare e i libri sono così pieni di letterine da far venire il mal di testa»; ma soprattutto cita Claude Guillon, intellettuale discusso e suggestivo, autore di un acuto saggio sull’uso politico del corpo (ricordate Foucault?) [Claude Guillon, Je chante le corps critique, H&O, Paris, 2008.].
Dice dunque Guillon: «Anche il meglio intenzionato degli osservatori direbbe che questa frase esprime tutta la presunzione e la crudeltà della giovinezza. Disgraziatamente, per l’occasione bisogna aggiungere “… e la sua grande stupidità”! Di fatto, e forse Inna potrebbe anche averlo letto in un libro, l’immagine delle femministe come di donne vecchie e tagliate fuori dal mondo (leggi: e dal mercato della carne) è un vecchissimo cliché antifemminista, che è deprimente vedere ripreso da una militante che pretende di rinnovare il femminismo» [ Quel usage politique de la nudité?, Claude Guillon, 7 février 2013]. Ed è ancora Guillon a commentare la foto di gruppo delle Femen apparsa sul mensile “Les Inrockuptibles”, e molto simile a questa, apparsa su “Obsession”, supplemento al “Nouvel Observateur” del 20 settembre 2012.
«Quale può essere l’effetto prodotto da questa foto di gruppo[...] sulle donne meno giovani, o giovani ma meno favorite dal caso genetico? Il medesimo effetto del terrorismo pubblicitario e machista che il femminismo denuncia incessantemente. Questa foto è qualcosa di peggio che una goffaggine, è un controsenso politico». Che sia un uomo a dire questo, è la dimostrazione palmare di quanto le Femen siano lontane dall’aver compreso il senso e la portata delle lotte femministe da Olympe de Gouges in qua (Olympe, nata Marie nel maggio di 265 anni fa, se non ho fatto male i conti).
E lo dimostra anche un altro fatto, citato sempre da Chollet: «Nel libro Femen, una delle fondatrici ucraine dichiara: “Le nostre ragazze devono essere sportive per affrontare prove difficili, e belle per utilizzare il proprio corpo a ragion veduta. Riassumendo, Femen incarna l’immagine di una donna nuova: bella, attiva e totalmente libera”». Chollet commenta, lapidaria: «Il femminismo meglio di uno yogurt al bifidus» — evocando scenari globali di pubblicità martellante (chissà se anche in Francia gli spot sullo yogurt al bifidus sono cretini come da noi). Aggiungo: quell’idea di “utilizzare il proprio corpo” mi suona tanto ma tanto lontana dal pensiero autenticamente femminista — come se il corpo non fosse (parte integrante del)l’individuo ma venisse percepito invece come qualcosa di estraneo, di distante, da reificare e quindi da strumentalizzare: se la donna “possiede” il proprio corpo anziché esserlo, allora quel medesimo corpo diventa un oggetto, passibile, a questo punto e come tutti gli oggetti, di compravendita, scambio e spersonalizzazione — carina quella cintura, la compro; anzi la cambio il giorno dopo perché non mi convince il colore; anzi alla prossima stagione la cedo volentieri a un’amica o magari la butto perché mi ha stufato. Non dimentichiamo, anche se sembra passato tanto tempo, che uno dei primi slogan di protesta femminile fu appunto il temibile “io sono mia”; e che la riappropriazione del proprio corpo — nel duplice senso di riunificazione della dualità mente/corpo artificiosamente imposta, e di recupero dell’antico sapere corporeo femminile espropriato da un millenario controllo sociale e culturale — fu una battaglia di punta del femminismo storico.
Ora, non so se il movimento delle Femen sia, come è stato detto, una montatura destabilizzante orchestrata ad arte; ma so — lo sento, con quella complessa conoscenza a pelle che le donne non hanno mai perso, anche se un condizionamento invasivo e capillare le ha indotte a credere che fosse da preferirle la lineare razionalità divisiva tutta maschile — so che non passa di qui la strada per la riappropriazione di uno spazio che ci fu tolto.
Alessandra Colla
Fonte: www.alessandracolla.net
Link: http://www.alessandracolla.net/2013/06/10/niente-femen-siamo-donne/
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