di Filippo Bovo Fonte: Stato e Potenza
Pare
che fra settembre e novembre, cercando di cogliere le più favorevoli
condizioni da parte del mercato, verrà messo sul mercato un altro 5% sia
di ENI che di ENEL, con l’obiettivo dichiarato d’incassare almeno 5
miliardi d’euro. Al momento attuale il Tesoro detiene all’incirca il 30%
d’entrambi gli enti, quota che in linea di diritto gli permette di
controllarne le Assemblee degli Azionisti. Con questa privatizzazione
questa situazione potrebbe cambiare significativamente a danno dello
Stato, inaugurando potenzialmente l’uscita di ENI ed ENEL dal suo
controllo ed il loro progressivo passaggio sotto la “tutela” degli
azionisti privati.
E’ una storia
scritta sin dai primi Anni ’90, allorchè si diede inizio alle
privatizzazioni a valanga che portarono alla dismissione d’ingenti
quote dell’industria di Stato. Sparirono, nel giro di pochi anni,
l’IRI, l’IMI e tutto il resto. Gran parte delle imprese e delle banche
privatizzate fecero una brutta fine, fagocitate da privati avidi ed
incapaci che le portarono alla completa estinzione. Si pensi, ad
esempio, al colosso Telecom completamente svuotato al proprio interno e
ridotto ad un guscio vuoto.
Il
motivo di questa nuova ondata di privatizzazioni, oggi come nel
passato, è costituito dalla necessità di fronteggiare il debito
pubblico. Il governo aveva pensato, non a caso, di privatizzare anche
il 40% di Poste Italiane. Ma quando Francesco Caio, il nuovo
amministratore delegato, s’è reso conto d’aver ereditato dal suo
predecessore Massimo Sami un’azienda non proprio in condizioni ottimali
o comunque tali da giustificarne una quotazione in borsa, al Tesoro
hanno preferito soprassedere e rimandare l’operazione al 2015. Stesso
discorso anche per SACE ed ENAV.
Di
conseguenza, al governo, rimaneva soltanto il solito binomio ENI ed
ENEL: due aziende prospere, dai brillanti fatturati, le cui azioni
possono fruttare guadagni sicuri. C’è da ringraziare che non abbiano
pensato anche a Finmeccanica. Ma possiamo star certi che, presto o
tardi, si ricorderanno anche della sua esistenza e che opteranno per
privarla di qualche altra sua preziosa componente, come già è avvenuto
nel recente passato.
E così,
privatizzando l’industria pubblica, si privatizza la Patria. La
sovranità sarà sempre di più un ricordo e l’Italia verrà
progressivamente, ma in tempi comunque molto rapidi, ridotta ad una
colonia commerciale ed economica delle altre potenze, quest’ultime a
differenza nostra ancora dotate d’una grande industria e capaci di
tutelare i propri interessi. L’obiettivo è sempre il solito:
trasformare l’Europa mediterranea, di cui l’Italia fa
incontestabilmente parte, in un mercato succube degli Stati Uniti (che
si preparano al grande banchetto col Trattato di Libero Commercio, i cui
effetti saranno ulteriormente enfatizzati dalle sanzioni russe che ci
privano di un grande partner commerciale) e, in misura minore, anche
della subpotenza tedesca.
In tutto
questo scenario recitano la loro parte i guru politici ed intellettuali
alla Oscar Farinetti che ripetono ossessivamente come l’Italia
potrebbe tranquillamente crescere e prosperare rinunciando
all’industria e dedicandosi esclusivamente al turismo e
all’agroalimentare. Ovvero, ritornare ad una situazione non molto
dissimile a quella che caratterizzava l’Italia negli anni precedenti al
boom economico del Secondo Dopoguerra, quando gli italiani per
sopravvivere dovevano emigrare o lavorare per poco (o per niente), dato
l’elevato tasso di disoccupazione che abbassava i costi della forza
lavoro. Insomma, quello che sembrava essere un brutto ricordo tornerà
ad essere il nostro futuro: o andremo a fare i camerieri ed i lavapiatti
in Inghilterra, oppure lo faremo qui in Italia, a beneficio dei
giapponesi, degli americani o dei tedeschi che verranno a godersi il
sole dello Stivale. E chi non farà il cameriere o il lavapiatti, andrà a
fare il bracciante: o vogliamo essere così ingenui da credere che
diventeremo tutti imprenditori, a capo di qualche ricca azienda agricola
che sforna decine di migliaia di bottiglie di vino all’anno? E se non
andrà bene fare nè l’uno nè l’altro mestiere, si potrà sempre andare a
lavorare nelle fabbriche tedesche. Tedesche, eh: non italiane.
Dopotutto, non è forse quello che sta già avvenendo?
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