Fonte: L'intellettuale dissidente
Le prime contromisure russe colpiscono direttamente l’economia dell’Unione e il nuovo ultimatum non spaventa Putin, perché ora il fattore tempo è dalla sua parte.
Un freddo e lungo inverno è
proprio quello che si augura Alexander Kharchenko, premier
dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk ed è ciò che il
governo di Kiev teme maggiormente: dopo un’anomala e includente estate
di guerra, l’arrivo prematuro del Generale Inverno non solo
cristallizzerebbe la situazione sul campo, ma farebbe prepotentemente
esplodere il problema dell’approvvigionamento di gas – la vera e unica
arma russa puntata verso l’Ucraina e il cuore produttivo dell’Europa.
Dall’inizio, a metà Aprile scorso,
dell’operazione speciale anti-terrorismo nel Donbass la leadership
ucraina e i suoi burattinai atlantici confidavano in una rapida vittoria
nell’est del paese: un intero esercito equipaggiato con carri armati,
artiglieria pesante e aviazione contro una milizia popolare raffazzonata
avrebbe dovuto avere vita facile a debellare la rivolta; ancora una
volta però i miopi calcoli degli strateghi della Casa Bianca si sono
dimostrati errati: non solo la fiera resistenza della popolazione
russofona ha enormemente rallentato l’avanzata dell’esercito regolare
infliggendogli un pesante tributo di sangue, ma soprattutto il recente
cambio di strategia dei ribelli – tramite l’utilizzo di grosse
formazioni motorizzate e l’apertura di un terzo fronte a Mariupol sul
Mar d’Azov con l’ambizioso obiettivo di aprire un corridoio terrestre
con la Crimea – hanno completamente gettato nel panico la dirigenza
ucraina.
La defezione di reparti dell’esercito – è
di una settimana fa la notizia che uno dei comandanti della 25ª brigata
di paracadutisti abbia cambiato casacca schierandosi con i filorussi -,
la resa d’intere unità circondate nella zona di Novoazovsk e la sempre
più diffusa renitenza alla leva hanno generato un’isterica accelerazione
della crisi. Solo così si spiega il frenetico tentativo di trovare a
ogni costo la pistola fumante che incrimini la Russia agli
occhi della comunità internazionale. Dove sono finite le prove
inconfutabili dell’abbattimento del Boing 777 della Malaysian Airlines
da parte dei ribelli, il convoglio di blindati russi distrutto dalle
truppe di Kiev o la presenza di 4.000 – 5.000 soldati russi nel
territorio ucraino? L’unica certezza è stata il primo scambio di
prigionieri tra i due paesi: 10 paracadutisti russi che avevano
sconfinato contro 63 soldati ucraini. Un po’ poco per gridare
all’invasione.
Eppure nelle cancellerie europee e al
quartiere generale della NATO si prosegue imperterriti nella strategia
della tensione aumentando il numero di soldati e aerei nelle basi
dell’Europa orientale, mandando unità navali nel Mar Nero, lanciando
ultimatum, annunciando la creazione di una forza d’intervanto rapido
(composta da GB, Danimarca, Lettonia, Estonia, Lituania, Norvegia,
Olanda e Canada) e arrestando due diplomatici russi di stanza a Kiev,
dati ufficialmente per dispersi. E, mentre in un’Europa sempre più in
recessione si studiano nuove sanzioni da applicare alla Russia, l’FMI
prepara la seconda tranche del prestito da 1,4 miliardi di dollari – per
un totale di 17 miliardi in due anni – per supportare l’economia
ucraina. Nel frattempo le contro-sanzioni russe nell’importazione di
carni, formaggi, pesce, latte, frutta e verdura dalla UE, dagli USA e da
Australia, Canada e Norvegia iniziano a far sentire i loro effetti
sull’asfittica economia europea: l’importazione russa valeva 43 miliardi
annui. Niente più salmone norvegese, prosciutto italiano, arance
spagnole, mele polacche, formaggi francesi, pomodori olandesi e pesce
mediterraneo nei supermercati di Mosca e la ventilata idea d’includere
nell’embargo anche le automobili tedesche preoccupa non poco Berlino.
La guerra delle sanzioni danneggia
entrambe le economie ma il fattore tempo ora volge a favore della
Russia: le sanzioni l’hanno spinta alla storica collaborazione con la
Cina – i gasdotti sono in costruzione –, con gli altri BRICS e alla
creazione dell’Unione Euroasiatica; ma soprattutto a breve l’Ucraina
dovrà saldarle il debito contratto pena l’interruzione di gas con gravi
ripercussioni sulle forniture dirette verso l’Europa. I burocrati di
Bruxelles alla fine dovranno rendere conto di quale vantaggio ci sia nel
far entrare a tutti i costi l’Ucraina – un paese dall’enorme debito
pubblico in cui la guerra costa un miliardo al giorno – nell’Unione e
nella NATO perdendo il ricco mercato russo, mentre Scozia e Catalogna si
apprestano a celebrare un referendum secessionista. Forse l’UE, oltre
che di rigore e flessibilità, sia sinonimo anche di masochismo?
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