domenica 9 novembre 2014

Lenin – Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale

 Lenin – Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale

In occasione del 97° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, riteniamo utile riproporre l’importante contributo di Lenin, rappresentato dalla relazione al IV Congresso dell’Internazionale Comunista. Un testo che mantiene la sua attualità, in quanto denso di insegnamenti anche per i processi rivoluzionari in corso nel mondo di oggi.
Relazione al IV congresso dell’Internazionale comunista, 13 novembre 1922
Fonte: Marx21.it
Tratto da: Tribuno del popolo
Compagni! Sono iscritto nell’elenco degli oratori come relatore principale, ma voi comprenderete che dopo la mia lunga malattia non posso fare un grande rapporto. Non posso che limitarmi a un’introduzióne alle questioni più importanti. Il mio tema sarà molto limitato. Il tema: Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale è troppo vasto e grandioso perché, in generale, un solo oratore, in un solo discorso, possa esaurirlo. Perciò mi limiterò a trattare soltanto una piccola parte di questo tema, cioè la questione della «nuova politica economica». Scelgo di proposito soltanto questa piccola parte del tema per informarvi su di un problema che oggi ha la massima importanza, almeno per me che ci lavoro attorno in questo momento.
Vi dirò perciò come abbiamo dato inizio alla nuova politica economica e quali risultati abbiamo ottenuto per mezzo di questa politica. Se mi limito a questo problema, riuscirò forse a farne un esame generale e a darne un’idea generale.

Per incominciare dal modo come siamo giunti alla nuova politica economica, devo richiamarmi a un articolo che io scrissi nel 1918 (101). Al princìpio del 1918, in una breve polemica, sfiorai, per l’appunto, la questione dell’atteggiamento che dovevamo assumere verso il capitalismo di Stato. Scrivevo allora:
«II capitalismo di Stato rappresenterebbe un passo avanti rispetto allo stato attuale delle cose (cioè, relativamente alla situazione di allora) nella nostra Repubblica sovietica. Se, per esempio, tra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme successo e rappresenterebbe la più sicura garanzia che tra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso invincibile».

Dicevo questo, s’intende, in un periodo nel quale eravamo più inesperti di adesso, ma non tanto inesperti da non poter esaminare simili questioni.
Cosicché, nel 1918, sostenevo l’opinione che, relativamente alla situazione economica allora esistente nella Repubblica sovietica, il capitalismo di Stato rappresentava un passo avanti. Ciò sembra molto strano, e forse perfino assurdo, poiché anche allora la nostra repubblica era già una repubblica socialista, poiché allora noi prendevamo ogni giorno con grande fretta – probabilmente con fretta esagerata – diverse nuove misure economiche che non possono essere chiamate altrimenti che socialiste. E ciò nondimeno io presumevo allora che il capitalismo di Stato, rispetto alla situazione economica allora esistente nella Repubblica sovietica, fosse un passo avanti, e spiegavo poi questa idea elencando semplicemente gli elementi fondamentali della struttura economica della Russia. Secondo me, questi elementi erano i seguenti: «1. la forma patriarcale, ossia la più primitiva dell’economia agricola; 2. la piccola produzione mercantile (questa forma comprende anche la maggioranza dei contadini che vendono il grano); 3. il capitalismo privato; 4. il capitalismo di Stato; e 5. il socialismo». Tutti questi elementi economici erano rappresentati nella Russia di quel tempo. Mi proposi allora di mettere in chiaro quali rapporti reciproci esistessero tra questi elementi e se non si dovesse attribuire a uno degli elementi non socialisti, cioè al capitalismo di Stato, un valore più alto del socialismo. Ripeto: sembra a tutti molto strano che un elemento non socialista sia stimato a un livello più alto, sia ritenuto più elevato del socialismo in una repubblica che si proclama socialista. Ma la cosa sarà chiara se ricorderete che non consideravamo la struttura economica della Russia come un qualche cosa di omogeneo e di altamente sviluppato, e che eravamo pienamente consci di avere in Russia un’agricoltura patriarcale, vale a dire la forma più primitiva di agricoltura, accanto alla forma socialista. Quale funzione, dunque, avrebbe potuto esercitare il capitalismo di Stato in una tale situazione?
Io mi domandavo inoltre: quale di questi elementi predomina? È chiaro che in un ambiente piccolo-borghese domina l’elemento piccolo-borghese. Io mi rendevo conto, allora, che l’elemento piccolo-borghese predominava; non era possibile pensare altrimenti. Il problema che mi prospettavo allora – si trattava di una polemica speciale che non riguardava la questione attuale – era il seguente: qual’è il nostro atteggiamente verso il capitalismo di Stato? E rispondevo: il capitalismo di Stato, pur non essendo una forma socialista, sarebbe per noi e per la Russia una forma preferibile a quella attuale. Che cosa vuoi dire questo? Vuol dire che non sopravvalutavamo né i germi né gli inizi dell’economia socialista, quantunque avessimo già compiuto la rivoluzione sociale; al contrario, già allora, comprendevamo, fino a un certo punto, che sarebbe stato meglio se dapprima fossimo pervenuti al capitalismo di Stato e soltanto dopo al socialismo.
Devo particolarmente sottolineare questo punto perché mi pare che soltanto partendo da esso sia possibile, in primo luogo, spiegare in che cosa consiste la politica economica attuale e, in secondo luogo, trarre delle importanti conclusioni pratiche anche per l’Internazionale Comunista. Non voglio dire che noi avessimo già un piano di ritirata preparato in precedenza. No, non l’avevamo. Quelle brevi righe polemiche non erano affatto, allora, un piano di ritirata. Non vi si trova neppure una parola, per esempio, su un punto molto importante: la libertà di commercio, che ha un’importanza fondamentale per il capitalismo di Stato. Nondimeno un’idea generica, indeterminata di ritirata era già contenuta in quelle righe. Penso che noi dobbiamo considerare con attenzione queste cose, non soltanto dal punto di vista di un paese che, per la sua struttura economica, era ed è tuttora molto arretrato, ma anche dal punto di vista dell’Internazionale comunista e dei paesi progrediti dell’Europa occidentale. Noi, per esempio, ci occupiamo ora di elaborare un programma. Personalmente io penso che la miglior cosa sarebbe di limitarci, per il momento, a esaminare i programmi soltanto in generale, per così dire in prima lettura, e a farli stampare, ma senza prendere una decisione definitiva ora, nell’anno corrente. Perché? Perché innanzi tutto penso che difficilmente siano stati studiati tutti come si deve, questo è evidente. E poi anche perché non abbiamo quasi affatto riflettuto sulla possibilità di una ritirata e sul modo di assicurare questa ritirata. E questo è un problema al quale dobbiamo assolutamente rivolgere la nostra attenzione in un periodo di cambiamenti tanto radicali in tutto il mondo, come l’abolizione del capitalismo e l’edificazione del socialismo con le sue enormi difficoltà. Dobbiamo non soltanto sapere come agire quando passiamo direttamente all’offensiva e quando vinciamo. In un periodo rivoluzionario, ciò non è poi tanto difficile e neanche tanto importante, o, per lo meno, non è la cosa più decisiva. In un periodo di rivoluzione vi sono sempre dei momenti nei quali l’avversario perde la testa, e se noi l’attacchiamo in uno dì questi momenti, possiamo vincere con facilità. Ma ciò non significa ancora nulla, perché il nostro avversario, se ha un sufficiente dominio di sé, può in precedenza raccogliere le forze, ecc. E allora può facilmente provocarci ad attaccare, e poi respingerci indietro di molti anni. Per questa ragione ritengo che l’idea di prepararci la possibilità di una ritirata abbia una grande importanza, e non solo da un punto di vista teorico. Anche da un punto di vista pratico, tutti i partiti che nel prossimo avvenire si prepareranno a passare all’offensiva diretta contro il capitalismo, devono pensare fin d’ora anche al modo di assicurarsi una ritirata. Penso che se teniamo conto di questa lezione, oltre che di tutte le altre tratte dall’esperienza della nostra rivoluzione, non soltanto non ne avremo alcun danno, ma, con molta probabilità, ne trarremo in molti casi un vantaggio.
Dopo aver sottolineato che fin dal 1918 consideravamo il capitalismo di Stato come una possibile linea di ritirata, passo ai risultati della nostra nuova politica economica. Ripeto: questa idea era allora molto vaga; ma nel 1921, dopo aver superato, e superato vittoriosamente, la tappa più importante della guerra civile, ci siamo urtati in una grande crisi politica interna, che io considero la più grande della Russia sovietica, la quale ha suscitato il malcontento non soltanto di una parte notevole dei contadini, ma anche degli operai. Per la prima e, spero, per l’ultima volta nella storia della Russia sovietica, le grandi masse dei contadini – sia pure non coscientemente, ma istintivamente – per il loro stato d’animo erano contro di noi. A che cosa era dovuta questa situazione originale e, s’intende, molto sgradevole per noi? La causa era che noi, nella nostra offensiva economica, ci eravamo spinti troppo oltre, non ci eravamo assicurata una base sufficiente. Le masse avevano sentito ciò che noi, in quel momento, non sapevamo ancora formulare coscientemente, ma che ben presto, dopo qualche settimana, riconoscemmo anche noi, e cioè che il passaggio diretto alle forme puramente socialiste, alla ripartizione puramente socialista era superiore alle nostre forze e che se non ci fossimo dimostrati in grado di eseguire una ritirata in modo da limitarci a compiti più facili, saremmo stati minacciati dalla rovina. La crisi incominciò, mi pare, nel febbraio 1921. Fin dalla primavera dello stesso anno decidemmo all’unanimità – non ho rilevato grandi disaccordi in proposito tra noi – di passare alla nuova politica economica. Oggi, dopo un anno e mezzo, alla fine del 1922, siamo già in grado di fare alcuni confronti. Che cosa è avvenuto? Come abbiamo passato questo periodo di più di un anno e mezzo? Qual’è il risultato ottenuto? Ci è stata utile questa ritirata e ci ha davvero salvati? O il risultato è ancora incerto? Questa è la questione principale che io mi pongo, e penso che essa abbia un’importanza di prim’ordine anche per tutti i partiti comunisti, perché, se la risposta fosse negativa, noi tutti saremmo condannati alla rovina. Ritengo che possiamo dare con tranquilla coscienza una risposta affermativa a tale questione; cioè possiamo dire che l’anno e mezzo trascorso ha dimostrato in modo positivo e assoluto che siamo usciti vittoriosi da questa prova.
Tenterò ora di dimostrare quest’affermazione. A tal fine devo passare brevemente in rassegna tutte le parti costitutive della nostra economia.
Prima di tutto mi soffermerò sul nostro sistema finanziario e sul famoso rublo russo. Penso che il rublo può essere considerato famoso, anche per il solo fatto che il numero di questi rubli sorpassa ora il quadrilione. È già qualche cosa. È una cifra astronomica. Sono sicuro che non tutti, qui, sanno neppure che cosa significhi questa cifra. Ma noi, soprattutto dal punto di vista della scienza economica, non le attribuiamo un’importanza eccessiva perché gli zeri si possono cancellare. In quest’arte, che dal punto di vista economico è anch’essa senza importanza, abbiamo già ottenuto qualche cosa e sono certo che, nell’avvenire, otterremo ancora molto di più. Ciò che veramente è importante, è il problema della stabilizzazione del rublo. Alla soluzione di questo problema lavoriamo noi, lavorano le nostre forze migliori. Noi attribuiamo a questo compito un’importanza decisiva. Se riusciamo, per un lungo periodo, e in seguito per sempre, a stabilizzare il rublo, vorrà dire che abbiamo vinto. Allora tutte queste cifre astronomiche, tutti questi trilioni e questi quadrilioni non saranno nulla. Allora noi potremo impiantare e continuare a sviluppare la nostra economia su un terreno solido. A questo proposito penso di potervi citare dei fatti abbastanza importanti e decisivi. Nel 1921, il periodo di stabilità del corso del rublo carta è durato meno di tre mesi. Nell’anno corrente, 1922, quantunque non sia ancora finito, questo periodo è durato più di cinque mesi. Ritengo che ciò sia già sufficiente. Certo, non basta, se volete da noi la dimostrazione scientifica che nell’avvenire risolveremo completamente questo problema. Ma, secondo me, una dimostrazione esauriente e completa non è generalmente possibile. I dati riferiti dimostrano che dall’anno scorso, da quando abbiamo iniziato la nostra nuova politica economica, sino a oggi, abbiamo già imparato ad avanzare. Se abbiamo imparato questo, sono certo che impareremo anche nell’avvenire a ottenere su questa via nuovi successi, purché non commettiamo qualche sciocchezza madornale. Il più importante, tuttavia, è il commercio, cioè lo scambio delle merci, che ci è indispensabile. E se siamo riusciti a venirne a capo durante due anni, benché fossimo in stato di guerra (giacché Vladivostok, come sapete, è stata ripresa soltanto alcune settimane fa), benché soltanto adesso possiamo incominciare a svolgere la nostra attività economica in modo del tutto sistematico, se malgrado tutto abbiamo ottenuto che il periodo di stabilizzazione del rublo carta passi da tre a cinque mesi, penso di poter affermare che possiamo esserne soddisfatti. Siamo soli. Non abbiamo ricevuto e non riceviamo nessun prestito. Nessuno dei potenti Stati capitalistici che organizzano la loro economia capitalistica in modo cosi «brillante» da non sapere neppure adesso dove vanno, ci ha aiutato. Essi hanno creato, con la pace di Versailles, un sistema finanziario nel quale non si raccapezzano neppure loro. Se questi grandi paesi capitalistici amministrano a questo modo, ritengo che noi, arretrati e non istruiti, possiamo essere soddisfatti di aver compreso l’essenziale, di aver compreso le condizioni della stabilizzazione del rublo, come dimostra non una qualche analisi teorica, ma la pratica; e la pratica, secondo me, è più importante di tutte le discussioni teoriche del mondo. E la pratica dice che in questo campo abbiamo ottenuto dei risultati decisivi, cioè che abbiamo incominciato a spostare l’economia nella direzione della stabilizzazione del rublo, il che ha la massima importanza per il commercio, per il libero scambio delle merci, per i contadini e per una massa grandissima di piccoli produttori.
Passo ora ai nostri fini sociali. L’essenziale – s’intende – sono i contadini. Nel 1921 c’era incontestabilmente il malcontento di una grandissima parte dei contadini. Poi abbiamo avuto la carestia. E questa per i contadini è stata la prova più dura. È ben naturale che allora tutti all’estero gridassero: «Eccoli, i risultati dell’economia socialista!». Ed è del tutto naturale che essi tacessero che la carestia, in realtà, era un orribile risultato della guerra civile. Tutti i proprietari fondiari e tutti i capitalisti, che nel 1918 avevano sferrato l’offensiva contro di noi, presentavano la carestia come un risultato dell’economia socialista.
La carestia è stata effettivamente una grande e grave disgrazia, una disgrazia che ha minacciato di distruggere tutto il nostro lavoro organizzativo e rivoluzionario.
Adesso io chiedo: dopo questa calamità inaudita e improvvisa, come stanno le cose, oggi, dopo che abbiamo introdotto la nuova politica economica, dopo che abbiamo concesso ai contadini la libertà di commercio? La risposta è chiara ed evidente per tutti: in un anno, i contadini non soltanto hanno avuto ragione della carestia, ma hanno anche versato l’imposta in natura in misura tale che abbiamo già ricevuto centinaia di milioni di pud di grano, e, inoltre, quasi senza applicare misure costrittive di qualsiasi specie. Le insurrezioni contadine che in passato, fino al 1921, caratterizzavano, per così dire, il quadro generale della Russia, sono quasi scomparse. I contadini sono soddisfatti della loro situazione attuale; possiamo dirlo tranquillamente. Per noi queste prove sono più importanti di qualsiasi dimostrazione statistica. I contadini, nel nostro paese, sono il fattore decisivo; nessuno lo mette in dubbio. E questi contadini, oggi, si trovano in condizioni tali che non dobbiamo temere un qualsiasi loro movimento contro di noi. Lo diciamo con piena coscienza, senza esagerazioni. Questo l’abbiamo già ottenuto. I contadini possono essere malcontenti di questo o di quell’aspetto del lavoro del nostro potere; essi possono lagnarsi. S’intende che ciò è possibile e inevitabile perché il nostro apparato e la nostra economia statale sono ancora troppo imperfetti per evitarlo; ma un serio malcontento di tutti i contadini contro di noi, è, in ogni caso, assolutamente escluso. Abbiamo ottenuto questo in un anno. E mi pare che sia già molto.
Passo ora all’industria leggera. Nell’industria dobbiamo appunto distinguere l’industria pesante da quella leggera, perché esse si trovano in condizioni diverse. Per quanto riguarda l’indùstria leggera, posso dire con tutta tranquillità che si nota una ripresa generale. Non mi dilungherò in particolari. Non rientra nel mio compito citare dei dati statistici. Ma questa impressione generale è basata sui fatti, e posso garantire che essa non è fondata su nulla di non giusto o di impreciso. Possiamo costatare una ripresa generale dell’industria leggera e, in relazione a questa ripresa, un certo miglioramento della situazione degli operai, sia di Pietrogrado che di Mosca. In altre regioni ciò avviene in proporzioni minori, perché vi predomina l’industria pesante. Non bisogna dunque generalizzare questo fatto. Ripeto tuttavia che l’industria leggera si trova incontestabilmente sulla via della ripresa e che il miglioramento della situazione degli operai di Pietrogrado e di Mosca è fuori di ogni dubbio. Fra gli operai di queste due città nella primavera del 1921 regnava il malcontento. Oggi questo malcontento non c’è più. Noi che seguiamo giorno per giorno la situazione e lo stato d’animo degli operai, non sbagliamo su questo argomento.
La terza questione concerne l’industria pesante. Debbo dire che in questo campo la situazione continua a essere difficile. Nel 1921 è incominciata una certa svolta in questa situazione. Possiamo dunque sperare che in un prossimo avvenire le cose miglioreranno. Abbiamo già raccolto in parte i mezzi necessari per questo. In un paese capitalistico, per migliorare le condizioni dell’industria pesante occorrerebbe un prestito di centinaia di milioni, senza i quali un miglioramento sarebbe impossibile. La storia economica dei paesi capitalistici dimostra che nei paesi arretrati l’unico mezzo per risollevare l’industria pesante erano i prestiti a lunga scadenza di centinaia di milioni di dollari o rubli oro. Noi non abbiamo avuto questi prestiti e finora non abbiamo ricevuto nulla. Ciò che si scrive oggi sulle concessioni e cose simili non esiste quasi altro che sulla carta. In questi ultimi tempi abbiamo scritto molto su questo argomento, specialmente sulla concessione Urquhart. La nostra politica delle concessioni mi sembra, ad ogni modo, molto buona. Tuttavia non abbiamo ancora concessioni passabili. Vi prego di non dimenticarlo. Perciò la situazione dell’industria pesante è effettivamente un problema molto difficile nel nostro paese arretrato, giacché non abbiamo potuto contare sulla possibilità di contrarre dei prestiti nei paesi ricchi. Ciò nonostante, costatiamo già un notevole miglioramento e vediamo inoltre che la nostra attività commerciale ci ha già fruttato un certo capitale; per ora molto modesto, è vero, poiché supera di poco i venti milioni di rubli oro. In ogni caso le fondamenta sono poste: il nostro commercio ci da dei mezzi che possiamo utilizzare per migliorare le condizioni dell’industria pesante. Comunque, nel momento presente, la nostra industria pesante è ancora in una situazione molto difficile. Ma io penso che siamo già in grado di economizzare qualche cosa. E questo lo faremo anche nell’avvenire. Quantunque le economie si facciano sovente a spese della popolazione, noi oggi dobbiamo economizzare. Stiamo lavorando per ridurre il nostro bilancio statale, il nostro apparato statale. Dirò poi ancora alcune parole a questo proposito. In ogni caso, dobbiamo ridurre il nostro apparato statale, dobbiamo economizzare quanto più è possibile. Economizziamo su tutto, perfino sulle scuole. E non può essere diversamente, perché sappiamo che se non si salverà, se non si riorganizzerà l’industria pesante, non potremo costruire nessuna industria: e senza l’industria, noi, come paese indipendente, moriremo. Questo lo sappiamo molto bene.
La salvezza della Russia non consiste soltanto in un buon raccolto nelle aziende contadine – questo è ancora poco – e non soltanto nelle buone condizioni dell’industria leggera che fornisce ai contadini gli oggetti di consumo, – anche questo è ancora poco: – ci è anche necessaria l’industria pesante. E per metterla in buono stato occorrono molti anni di lavoro.
L’industria pesante ha bisogno di sussidi statali. Se non troveremo questi sussidi, saremo perduti, non dico già come Stato socialista, ma come paese civile. Perciò, da questo punto di vista, abbiamo fatto un passo decisivo. Abbiamo trovato i mezzi necessari per mettere in piedi l’industria pesante. La somma che abbiamo raccolto finora supera appena, è vero, i 20 milioni di rubli oro; ma, in ogni caso, questa somma esiste ed è destinata unicamente a risollevare la nostra industria pesante.
Mi pare di avervi esposto sommariamente e brevemente, come avevo promesso, gli elementi principali della nostra economia nazionale e penso che da quanto ho detto si possa trarre la conclusione che la nuova politica economica ha già dato un risultato positivo. Abbiamo già la dimostrazione che noi, come Stato, siamo in grado di esercitare il commercio, di mantenere solide posizioni nell’agricoltura e nell’industria, e di avanzare. L’azione pratica lo ha dimostrato. E penso che per ora questo ci basti. Dovremo studiare ancora molto e abbiamo compreso che è necessario studiare. Da cinque anni teniamo il potere, e in questi cinque anni siamo sempre stati in guerra. Dunque abbiamo vinto.
Il perché è comprensibile: perché i contadini sono stati con noi. È difficile essere con noi più di quanto lo siano stati i contadini. Essi hanno capito che dietro ai bianchi c’erano i grandi proprietari fondiari, che essi odiano più di tutto al mondo, e perciò sono stati con noi con tutto il loro entusiasmo, con tutta la loro devozione. Non è stato difficile ottenere che i contadini ci difendessero dai bianchi. I contadini, che prima odiavano la guerra, hanno fatto tutto il possibile per la guerra contro i bianchi, per la guerra civile contro i grandi proprietari fondiari. Eppure non era ancora tutto, perché in sostanza qui si trattava solo di sapere se il potere doveva restare nelle mani dei grandi proprietari o nelle mani dei contadini. E questo per noi non era sufficiente. I contadini comprendono che abbiamo conquistato il potere per gli operai e che ci prefiggiamo di fondare, per mezzo di questo potere, l’ordine socialista. La cosa più importante per noi era dunque la preparazione dell’economia socialista. Non potevamo prepararla seguendo una via diretta. Siamo stati costretti a farlo seguendo vie indirette. Il capitalismo di Stato, come l’abbiamo instaurato da noi, è un capitalismo di Stato particolare. Esso non corrisponde al concetto ordinario di capitalismo di Stato. Noi abbiamo nelle nostre mani tutte le leve di comando, abbiamo nelle nostre mani la terra che appartiene allo Stato. Ciò è molto importante, quantunque i nostri avversari presentino la questione come se ciò non avesse alcuna importanza. Non è giusto. Il fatto che la terra appartiene allo Stato è estremamente importante e ha inoltre una grande portata pratica dal punto di vista economico. Questa è una nostra conquista, e devo dire che anche tutta la nostra attività futura dovrà svolgersi senza uscire da questo quadro. Abbiamo già ottenuto che i nostri contadini siano contenti, che l’industria si riattivi e che il commercio rifiorisca. Ho già detto che il nostro capitalismo di Stato differisce dal capitalismo di Stato nel senso letterale dell’espressione, in quanto abbiamo nelle mani dello Stato proletario non soltanto la terra, ma anche i settori più importanti dell’industria. Anzitutto abbiamo dato in affitto una certa parte della piccola e media industria; ma tutto il rimanente resta nelle nostre mani. Per quanto riguarda il commercio, voglio ancora sottolineare che ci adoperiamo a fondare, e che anzi stiamo fondando, delle società miste, cioè delle società nelle quali una parte del capitale appartiene a capitalisti privati – e particolarmente a capitalisti stranieri – el’altra parte a noi. In questo modo, in primo luogo, impariamo a commerciare, e questo ci è indispensabile; in secondo luogo, ci sarà possibile, quando lo riterremo necessario, liquidare queste società, cosicché noi, per così dire, non corriamo nessun rischio. Dal capitalista privato impariamo e vediamo come possiamo risollevarci e quali errori commettiamo. Mi pare di potermi limitare a questo.
Vorrei accennare ancora ad alcuni punti di minore importanza.
È fuori di dubbio che abbiamo fatto e facciamo ancora una quantità enorme di sciocchezze. Nessuno può giudicare meglio di me; nessuno può rendersene conto più chiaramente.
Ma perché facciamo delle sciocchezze? È comprensibile: in luogo, perché siamo un paese arretrato; in secondo luogo, perché l’istruzione del nostro paese è minima; in terzo luogo, perché non riceviamo nessuno aiuto. Non c’è un paese civile che ci aiuti. Al contrario, i paesi civili lavorano tutti contro di noi. In quarto luogo, per colpa del nostro apparato statale. Abbiamo ereditato il vecchio apparato statale e questa è la nostra disgrazia. L’apparato statale lavora molto spesso contro di noi. È avvenuto che nel 1917, dopo che avevamo preso il potere, l’apparato statale ci ha sabotato. Allora ci spaventammo molto e dicemmo: «Per favore, ritornate da noi». Sono ritornati tutti, questa è stata la nostra disgrazia. Oggi abbiamo una massa enorme di impiegati, ma non abbiamo un numero sufficiente di elementi preparati che possano effettivamente dirigerli. In pratica avviene molto spesso che qui, in alto, dove abbiamo il. potere statale, l’apparato bene o male funziona: ma in basso, dove comandano loro, spadroneggiano in modo tale, che, spesso, agiscono contro i nostri provvedimenti. In alto abbiamo non so quanti, ma penso ad ogni modo soltanto alcune migliaia, al massimo alcune decine di migliaia di elementi nostri. Ma in basso abbiamo delle centinaia di migliaia di vecchi funzionari, ereditati dallo zar e dalla società borghese, che lavorano, parte coscientemente e parte incoscientemente, contro di noi. È fuor di dubbio che in questo campo, in breve tempo, non si può far nulla. Dovremo lavorare molti anni per perfezionare l’apparato, per cambiarlo e per attrarre forze nuove. Ed è questo che noi facciamo con un ritmo abbastanza rapido, forse troppo rapido. Abbiamo fondato scuole sovietiche, facoltà operaie; alcune centinaia di migliaia di giovani studiano; studiano forse troppo in fretta; ma in ogni caso il lavoro è iniziato e penso che questo lavoro darà buoni frutti. Se non lavoreremo con troppa precipitazione, tra alcuni anni avremo un grande numero di giovani capaci di cambiare radicalmente il nostro apparato.
Ho detto che abbiamo fatto una quantità enorme di sciocchezze: ma a questo proposito devo anche dire due parole sui nostri awersari. Se i nostri avversari ci rimproverano facendo notare che Lenin stesso riconosce che i bolscevichi hanno fatto una quantità enorme di sciocchezze, voglio rispondere: sì; ma sappiate, in ogni caso, che le nostre sciocchezze sono di tutt’altro genere delle vostre. Noi abbiamo soltanto incominciato a studiare; ma studiamo in modo così sistematico, che siamo certi di ottenere buoni risultati. Ma se i nostri awersari, cioè i capitalisti e gli eroi della II Internazionale, mettono in rilievo le sciocchezze fatte da noi, mi permetterò di citare qui, per paragone, le parole di un celebre scrittore russo, modificandole un po’. Esse suoneranno allora in questo modo: Quando un bolscevico fa delle sciocchezze, dice «Due per due, cinque»: ma quando i suoi avversari, cioè i capitalisti e gli eroi della II Internazionale, fanno delle sciocchezze, risulta che «due per due è uguale a una candela stearica» (102). Non è difficile dimostrarlo. Prendete, per esempio, il trattato concluso con Kolciak dall’America, dall’Inghilterra, dalla Francia e dal Giappone. Vi domando: esistono al mondo delle potenze più civili, più potenti di queste? E che cosa è avvenuto? Esse hanno promesso di aiutare Kolciak, senza fare nessun calcolo, senza riflettere, senza osservare. È stato un fiasco tale che, secondo me, è perfino difficile concepirlo dal punto di vista della ragione umana.
Oppure prendiamo un altro esempio, ancora più vicino e più importante: la pace di Versailles. Vi domando: che cosa hanno fatto in questo caso le «grandi» potenze, le potenze «coperte di gloria»? Come potranno ora trovare una via d’uscita da questo caos, da questo assurdo? Credo di non esagerare se ripeto che le nostre sciocchezze non sono niente, in confronto a quelle che fanno, tutti insieme, gli Stati capitalistici, il mondo capitalistico e la II Internazionale. Ritengo perciò che le prospettive della rivoluzione mondiale – tema che devo sfiorare rapidamente – siano favorevoli. E penso che saranno ancora migliori a una determinata condizione. Su questa condizione vorrei dire ancora due parole.
Nel 1921, al III congresso, abbiamo votato una risoluzione sulla struttura organizzativa dei partiti comunisti, e sui metodi e sul contenuto del loro lavoro. La risoluzione è eccellente, ma è quasi interamente russa, cioè quasi interamente ispirata alle condizioni russe. Questo è il suo lato buono, ma anche il suo lato cattivo. Cattivo, perché sono convinto che quasi nessuno straniero potrà leggerla: ho riletto la risoluzione ancora una volta, prima di dire questo. In primo luogo è troppo lunga: contiene cinquanta o più paragrafi. Gli stranieri, di solito, non possono leggere cose simili. In secondo luogo, anche se la leggeranno, nessuno degli stranieri la comprenderà, appunto perché è troppo russa. Non perché sia scritta in russo, essa è tradotta ottimamente in tutte le lingue, ma perché è interamente permeata di spirito russo. In terzo luogo, se, anche in via di eccezione, qualche straniero la comprenderà, non potrà applicarla. Questo è il suo terzo difetto.
Ho parlato con alcuni delegati che sono venuti qui, e spero, nel corso ulteriore di questo congresso, al quale mi è purtroppo impossibile partecipare, di poter parlare ampiamente con un gran numero di delegati dei vari paesi. Ho l’impressione che abbiamo commesso un grande errore con quella risoluzione, e cioè che ci siamo noi stessi tagliata la strada verso ulteriori successi. Come ho già detto, la risoluzione è stesa molto bene e sono disposto a mettere la firma sotto i suoi cinquanta e più paragrafi. Ma noi non abbiamo capito come si deve mettere la nostra esperienza russa alla portata degli stranieri. Tutto ciò che dice la risoluzione, è rimasto lettera morta. Se non comprenderemo questo, non potremo avanzare oltre. Ritengo che per noi tutti, tanto per i compagni russi che per i compagni stranieri, l’essenziale sia questo: dopo cinque anni di rivoluzione russa, dobbiamo studiare. Soltanto adesso abbiamo la possibilità di studiare. Non so per quanto tempo questa possibilità potrà durare. Non so per quanto tempo le potenze capitalistiche ci lasceranno la possibilità di studiare tranquillamente. Ma ogni momento libero dalla lotta, dalla guerra, dobbiamo utilizzarlo per lo studio, e per di più cominciando dal principio.
Tutto il partito e tutti gli strati della popolazione in Russia lo dimostrano con la loro sete di sapere. Questa aspirazione allo studio dimostra che oggi il compito più importante per noi è: studiare, e studiare; ma anche i compagni stranieri debbono studiare; non come studiamo noi, cioè non per imparare a leggere, a scrivere e a comprendere ciò che si legge, della qual cosa abbiamo ancora bisogno. Si discute se ciò appartiene alla cultura borghese o alla cultura proletaria. Lascio la questione aperta. In ogni caso è indubitabile che, prima di tutto, abbiamo bisogno di imparare a leggere, a scrivere e comprendere ciò che si legge. Gli stranieri non ne hanno bisogno. Essi hanno già bisogno di qualche cosa di più elevato, intendendo con ciò, prima dì tutto, anche la-necessità di comprendere quel che noi abbiamo scritto sulla struttura organizzativa dei partiti comunisti e che i compagni stranieri hanno firmato senza leggere e senza comprendere. Questo deve essere il loro primo compito. È indispensabile applicare questa risoluzione. Ciò non può esser fatto in una notte. È assolutamente impossibile. La risoluzione è troppo russa: riflette l’esperienza russa e perciò è assolutamente incomprensibile agli stranieri, i quali non possono accontentarsi di appenderla in un angolo, come un’icona, e di pregare davanti a essa. Così non si può ottenere nulla. I compagni stranieri debbono digerire un buon pezzo di esperienza russa. Come questo avverrà, non so. Forse i fascisti in Italia, per esempio, ci renderanno grandi servizi mostrando agli italiani che non sono ancora abbastanza istruiti, che loro paese non è ancora garantito contro i centoneri. Forse questo sarà molto utile. Anche noi russi dobbiamo cercare i mezzi di spiegare agli stranieri le basi di questa risoluzione. Altrimenti essi non saranno assolutamente in grado di applicarla. Sono persuaso che a questo riguardo dobbiamo dire non soltanto ai compagni russi, ma anche ai compagni stranieri, che nel prossimo periodo l’essenziale è lo studio. Noi studiamo nel senso generale della parola. Essi invece debbono studiare in un senso particolare, per comprendere veramente l’organizzazione, la struttura, il metodo e il contenuto del lavoro rivoluzionario. Se questo sarà fatto, sono convinto che le prospettive della rivoluzione mondiale saranno non soltanto buone, ma eccellenti.
Pravda n. 258, 15 novembre 1922
Note:
1) Lenin allude al suo articolo Sull’infantilismo di “Sinistra” e sullo spirito piccolo-borghese.
2) L’espressione è di Turgheniev

da Lenin, Opere Complete, vol. 33, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 385-397

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