La Cina verso un mondo multipolare
La Repubblica Popolare Cinese, in questa delicata polveriera internazionale, è uno dei pochi baluardi della pace e della stabilità. Nonostante voglia mantenere posizioni collaborative con il mondo occidentale, spinge effettivamente i destini dei popoli asiatici verso la creazione di un mondo multipolare. La Cina, lontana dalla mentalità da “guerra fredda” ancora alla base della Weltanschauung dei presidenti americani, ben comprende che avere buoni rapporti commerciali con i paesi imperialisti non significa sostenerne i progetti egemonici. Ciò a cui i dirigenti cinesi hanno più interesse, oltre al proprio sviluppo, è la creazione di un sistema economico “aperto”, di un mondo che sappia risolvere le dispute internazionali con le trattative e non attraverso un “gendarme mondiale”. È per questo motivo che, anche dopo la riforma, Pechino ha mantenuto comunque una posizione “neutrale” tra URSS e Stati Uniti, criticando sia le politiche imperialiste americane, ma non lesinando critiche nemmeno ai sovietici.
I cinesi, di fronte ad una superpotenza che mette continuamente a repentaglio gli equilibri internazionali, hanno deciso che è tempo di schierarsi, innanzitutto, dalla parte della Russia, superpotenza che sta, nei fatti, contrastando l’avanzata della NATO ad est e che sta cercando di promuovere una soluzione diplomatica nel conflitto del Donbass. I numerosi accordi sino-russi, tra cui quello sul gas (in un momento nel quale le sanzioni occidentali cercavano di infastidire il gigante russo), e la rinnovata cooperazione in materia di sicurezza (ribadita all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), dimostrano come la Cina abbia a cuore la stabilità eurasiatica e sappia scegliersi in modo lungimirante gli alleati. L’alleanza strategica con Mosca, oggi più che mai, è vitale per la Cina e qualunque popolo cerchi di smarcarsi dall’egemonia americana, e la Cina rappresenta oramai l’altro polo di questa alleanza globale antimperialista.
La Repubblica Popolare Cinese, dagli anni ‛70, ha enormemente migliorato le proprie relazioni con i paesi occidentali, ma è stata in grado di reagire con forza ad ogni provocazione imperialista e ad ogni minaccia alla sicurezza nazionale. In realtà, i rapporti sino-americani non sono sempre stati idilliaci, proprio perché gli Stati Uniti non hanno mai realmente smesso di vedere la Cina come un avversario, a metà tra “residuo dell’Impero del male” e “regime che opprime il proprio popolo”. Tutti i tentativi imperialisti di sfidare la Cina sono stati puntualmente denunciati dalle autorità cinesi, senza tuttavia incamminarsi verso una fase di confronto globale. Nel 1989 gli imperialisti ci provarono per la prima volta, e alle sanzioni contro la Cina, seguite da parte dei paesi occidentali, così rispose Deng Xiaoping: «Pensiamo che non sia saggio per gli stranieri ricorrere all’aggressione e alle minacce; ciò va solo a nostro vantaggio. I fatti mostrano che coloro che hanno imposto sanzioni contro di noi hanno iniziato a ripensare a cosa avevano fatto. In breve, il popolo cinese non ha paura dell’isolamento e non sarà umiliato. Non importa quali cambiamenti possono avvenire nella situazione internazionale, la Cina sarà in grado di mantenere la rotta. Penso che questo sia il vero modo per capire la Cina» (Deng Xiaoping, Nessuno può scuotere la Cina socialista, 26 ottobre 1989). Uno scenario simile, anche se non di simili proporzioni, si verificò nel 1999: durante la guerra d’aggressione contro la Iugoslavia di Slobodan Milošević la NATO colpì l’ambasciata cinese a Belgrado con cinque missili, uccidendo tre cittadini cinesi e ferendone oltre 20. Nonostante i ripetuti appelli del governo di Pechino, gli Stati Uniti si sono limitati a chiedere scusa pubblicamente, ma insistendo sul fatto che si fosse trattato di un errore e senza fornire spiegazioni soddisfacenti. Anche in questo caso il governo cinese seppe agire con cautela e coerenza, senza eccedere né in un senso né nell’altro: «Vent’anni di riforma e apertura ci hanno portato un nuovo e grande sviluppo. Ciò nonostante, siamo ancora dietro agli Stati Uniti e alle altre potenze occidentali in potenza economica, scientifica e tecnologica, nella capacità di difesa nazionale, e al tempo stesso siamo sotto la pressione di politiche egemoniste e di potenza. In queste circostanze, dobbiamo seguire il principio di osservare con calma ed agire con freddeza per guadagnare tempo e sfruttare tutte le opportunità per concentrarci sull’accelerazione dello sviluppo interno. […] Abbiamo ancora bisogno di continuare i nostri accordi con gli Stati Uniti» (Jiang Zemin, Selected Works, vol. II, Foreign Languages Press, Pechino, 2013, p. 317).
La riscoperta della Nazione
I dirigenti cinesi, a cominciare da Mao Zedong, hanno sempre dato grande peso al patriottismo e ai valori della Nazione cinese, alla sua cultura classica così come alla sua antica e ricca tradizione culturale.
Comprendendo che la tradizione culturale non è un nemico del socialismo, come certe frange radicali vorrebbero, ma, anzi, una sua forma di ricchezza capace di modellarlo ed arricchirlo, i dirigenti cinesi hanno però dovuto combattere duramente per riaffermare totalmente il valore della cultura tradizionale cinese nel sistema socialista. Ancora durante la rivoluzione culturale, per opera della Banda dei quattro, la figura di Confucio e altri pilastri della tradizione cinese furono bersaglio di duri attacchi.
Ma, pian piano, la ricchezza culturale della tradizione è emersa anche a livello politico, ed è stata capace di porsi sia come modello teorico sia come continuità della tradizione sinica, che è la tradizione di una civiltà con 5.000 anni di storia. Confucio ed i suoi preziosi insegnamenti filosofici non sono certo i soli ad essere stati riscoperti di recente. Dobbiamo aggiungere tutti i grandi cinesi dell’antichità che viaggiarono per il mondo alla scoperta di altre culture, come Zhang Qian (? – 114 a.C.), funzionario della dinastia Han Occidentale, il quale, coi suoi viaggi a occidente fu tra coloro che effettivamente portarono alla nascita della Via della Seta, e il famoso navigatore Zhang He (1371-1433), che dal 1405 al 1433 condusse sette spedizioni marittime lungo la costa africana e visitò oltre 30 paesi. A questi vanno aggiunti i numerosissimi poeti della ricca letteratura cinese, ma soprattutto gli eroi della Cina moderna, tra quali bisogna enumerare Lin Zexu (1785-1850): egli, nelle ultime fasi dell’Impero, lavorò duramente per arginare il Fiume Giallo e mettere in sicurezza le città cinesi, ma fu soprattutto protagonista nella lotta contro l’oppio, confiscando oltre 1,15 milioni di chili di oppio americano e britannico e facendoli affondare nell’oceano. Comandò anche le truppe cinesi nella difesa contro l’aggressione britannica nella guerra dell’oppio, ma la sconfitta gli costò un immerito esilio nello Xinjiang. La sua figura, insieme a quella di Sun Yat-sen, ben rappresenta la stoica capacità dei cinesi di resistere alle nefaste influenze straniere, la quale è ancora oggi una virtù.
Riprendendo la propria tradizione millenaria e ponendo il socialismo come un genuino sviluppo di questa tradizione, la Cina ha ricominciato a guardare a se stessa come all’“Impero di mezzo”, non più nel senso sinocentrico che questo termine aveva in età imperiale, ma con un’alta coscienza dell’importanza storica e culturale della civiltà sinica nel passato e nel presente. Prendendo spunto da questa riproposizione di valori, è tempo che anche gli italiani cessino di guardare all’Italia come ad un paese fallito e mediocre, e che ricomincino a concepirla come il «bel paese là dove ’l sì suona» (Inferno, XXXIII), come l’erede della «donna di provincie» (Purgatorio, VI) che è stata politicamente in epoca romana e culturalmente in età medievale e rinascimentale.
Leonardo Olivetti