Il socialismo di mercato come sviluppo creativo del socialismo
Comprendere l’importanza dell’esperienza
cinese è, ora, più che mai importante: la Repubblica Popolare Cinese,
un paese socialista guidato da un Partito Comunista, è il più potente
paese al mondo. La potenza e il grado di sviluppo del socialismo cinese
non sono dati solo da meri “fatti” quantitativi, ma anche dalla qualità
della riforma, da un socialismo che è passato dal modello sovietico al
socialismo di mercato. Riflettendo sull’esempio storico dell’Unione
Sovietica, delle sue indiscusse vittorie come della sua caduta, i
dirigenti cinesi hanno sviluppato in modo creativo una propria visione
economica socialista, sviluppando un modello originale e nazionale
adatto alla situazione cinese, un’economia che ha saputo evitare il
tracollo e la stagnazione e mantenersi fluida e flessibile. Nella
ricerca costante di una via socialista che si conformi alle proprie
condizioni nazionali, non è possibile, al giorno d’oggi, ignorare la
portata storica ed ideologica dell’esperienza socialista sviluppatasi in
Cina.
Le radici del socialismo di mercato, termine ufficiale per descrivere il sistema economico cinese, affondano le proprie radici nel pensiero di Deng Xiaoping, in particolar modo nella sistematizzazione della sua teoria economica, che avvenne negli ultimi anni della sua carriera politica. Non è un caso che gli attuali dirigenti politici considerino “sunto essenziale” del suo pensiero economico i suoi discorsi pronunciati a Wuchang, Shenzhen, Zhuahai e Shanghai, datati 1992. In questi discorsi, fu delineato quel principio capace di rompere alcuni inveterati schemi economici socialisti, e portare la Cina, per la prima volta, a “cercare la verità nei fatti”: «La proporzione della pianificazione nelle forze di mercato non è la differenza essenziale tra socialismo e capitalismo. Un’economia pianificata non equivale al socialismo, poiché esiste una pianificazione anche sotto il capitalismo; un’economia di mercato non è capitalismo, perché ci sono i mercati anche sotto il socialismo. La pianificazione e le forze di mercato sono entrambi modi per controllare le attività economiche. L’essenza del socialismo è la liberazione e lo sviluppo delle forze produttive, l’eliminazione dello sfruttamento e della polarizzazione, e, infine, la prosperità per tutti. Questo concetto deve essere reso chiaro al popolo. Sono i titoli ed il mercato azionario buoni o cattivi? Non comportano pericoli? Sono peculiari del capitalismo? Può il socialismo farne uso? Noi lasciamo che il popolo abbia il proprio giudizio, ma queste cose dobbiamo testarle. Se, dopo uno o due anni di sperimentazione, si dimostrano cose fattibili, possiamo espanderle. Altrimenti, possiamo porvi fine e terminare questo esperimento. Possiamo fermare tutto ciò in una volta sola o gradualmente, totalmente o parzialmente. Di cosa dovremmo avere paura? Finché manteniamo questa attitudine, tutto andrà bene, e non commetteremo gravi errori. In breve, se vogliamo che il socialismo dimostri la sua superiorità sul capitalismo, non dobbiamo esitare ad attingere ai successi di tutte le culture e dobbiamo imparare dagli altri paesi, inclusi i paesi capitalisti sviluppati, tutti i metodi operativi avanzati e le tecniche di gestione che riflettono le leggi che governano la moderna produzione sociale» (Deng Xiaoping, Estratti dai discorsi pronunciati a Wuchang, Shenzhen, Zhuhai, Shanghai, 18 gennaio – 21 febbraio 1992).
I dirigenti cinesi, da Deng Xiaoping in poi, hanno compreso che il fine principale del socialismo è la prosperità e lo sviluppo, non la disputa dottrinale. D’altronde, il sistema socialista può dimostrare la sua superiorità rispetto a quello capitalista solo quando assicura effettivamente una vita migliore ai propri cittadini. Perciò, abbandonando (ma non dimenticando) il principio della “lotta di classe come essenza del socialismo”, i dirigenti cinesi si sono concentrati nella ricerca di una via di sviluppo che si adattasse alle caratteristiche cinesi, e ne permettesse uno sviluppo equilibrato. L’imitazione di altri modelli, se dà un lato può portare ad una stabilizzare e ad un miglioramento sociale (come fu la sostanziale imitazione del modello sovietico), dall’altro può congelare le potenzialità di sviluppo di un paese, e la Cina, che ha grande disponibilità di risorse e mano d’opera, non poteva che svilupparsi seguendo una via socialista propria, una via cinese. Da queste profonde riflessioni storiche nacque la consapevolezza di dover trovare un socialismo con caratteristiche cinesi anche a livello economico.
La prima volta che si propose il termine “economia socialista di mercato” fu nel giugno 1992, in un discorso di Jiang Zemin ai quadri ministeriali e provinciali. Nello stesso discorso, egli delineò anche i punti cardine di questo nuovo pensiero economico, e le sue caratteristiche inderogabili: «Primo, riguardo alla struttura della proprietà, si mantiene il settore pubblico in posizione dominante, lo si integra con un settore privato che include imprese a proprietà individuale e altri settori, e si permette a diversi settori economici di svilupparsi fianco a fianco. Secondo, riguardo la distribuzione, si mantiene la distribuzione in base al lavoro in posizione dominante, e la si integra con altri modi, e si permette e si incoraggia alcune località ed individui a prosperare per primi, e, gradualmente, si ottiene la prosperità per tutti e si previene la polarizzazione. Terzo, riguardo ai meccanismi operativi dell’economia, si ottiene un’integrazione, organica e a lungo termine, dell’economia pianificata e dell’economia di mercato; si fa pieno uso dei vantaggi di entrambi; si promuove l’ottimizzazione della distribuzione delle risorse; e si compiono ragionevoli rettifiche alla distribuzione sociale» (Jiang Zemin, Selected Works, vol. I, Foreign Languages Press, Pechino, 2013, p. 192). Che l’elaborazione di un proprio sistema economico socialista, sganciato da precetti obsoleti e assiomi importati da altri modelli, funzioni efficacemente, la Repubblica Popolare Cinese è lì a dimostrarlo.
Le radici del socialismo di mercato, termine ufficiale per descrivere il sistema economico cinese, affondano le proprie radici nel pensiero di Deng Xiaoping, in particolar modo nella sistematizzazione della sua teoria economica, che avvenne negli ultimi anni della sua carriera politica. Non è un caso che gli attuali dirigenti politici considerino “sunto essenziale” del suo pensiero economico i suoi discorsi pronunciati a Wuchang, Shenzhen, Zhuahai e Shanghai, datati 1992. In questi discorsi, fu delineato quel principio capace di rompere alcuni inveterati schemi economici socialisti, e portare la Cina, per la prima volta, a “cercare la verità nei fatti”: «La proporzione della pianificazione nelle forze di mercato non è la differenza essenziale tra socialismo e capitalismo. Un’economia pianificata non equivale al socialismo, poiché esiste una pianificazione anche sotto il capitalismo; un’economia di mercato non è capitalismo, perché ci sono i mercati anche sotto il socialismo. La pianificazione e le forze di mercato sono entrambi modi per controllare le attività economiche. L’essenza del socialismo è la liberazione e lo sviluppo delle forze produttive, l’eliminazione dello sfruttamento e della polarizzazione, e, infine, la prosperità per tutti. Questo concetto deve essere reso chiaro al popolo. Sono i titoli ed il mercato azionario buoni o cattivi? Non comportano pericoli? Sono peculiari del capitalismo? Può il socialismo farne uso? Noi lasciamo che il popolo abbia il proprio giudizio, ma queste cose dobbiamo testarle. Se, dopo uno o due anni di sperimentazione, si dimostrano cose fattibili, possiamo espanderle. Altrimenti, possiamo porvi fine e terminare questo esperimento. Possiamo fermare tutto ciò in una volta sola o gradualmente, totalmente o parzialmente. Di cosa dovremmo avere paura? Finché manteniamo questa attitudine, tutto andrà bene, e non commetteremo gravi errori. In breve, se vogliamo che il socialismo dimostri la sua superiorità sul capitalismo, non dobbiamo esitare ad attingere ai successi di tutte le culture e dobbiamo imparare dagli altri paesi, inclusi i paesi capitalisti sviluppati, tutti i metodi operativi avanzati e le tecniche di gestione che riflettono le leggi che governano la moderna produzione sociale» (Deng Xiaoping, Estratti dai discorsi pronunciati a Wuchang, Shenzhen, Zhuhai, Shanghai, 18 gennaio – 21 febbraio 1992).
I dirigenti cinesi, da Deng Xiaoping in poi, hanno compreso che il fine principale del socialismo è la prosperità e lo sviluppo, non la disputa dottrinale. D’altronde, il sistema socialista può dimostrare la sua superiorità rispetto a quello capitalista solo quando assicura effettivamente una vita migliore ai propri cittadini. Perciò, abbandonando (ma non dimenticando) il principio della “lotta di classe come essenza del socialismo”, i dirigenti cinesi si sono concentrati nella ricerca di una via di sviluppo che si adattasse alle caratteristiche cinesi, e ne permettesse uno sviluppo equilibrato. L’imitazione di altri modelli, se dà un lato può portare ad una stabilizzare e ad un miglioramento sociale (come fu la sostanziale imitazione del modello sovietico), dall’altro può congelare le potenzialità di sviluppo di un paese, e la Cina, che ha grande disponibilità di risorse e mano d’opera, non poteva che svilupparsi seguendo una via socialista propria, una via cinese. Da queste profonde riflessioni storiche nacque la consapevolezza di dover trovare un socialismo con caratteristiche cinesi anche a livello economico.
La prima volta che si propose il termine “economia socialista di mercato” fu nel giugno 1992, in un discorso di Jiang Zemin ai quadri ministeriali e provinciali. Nello stesso discorso, egli delineò anche i punti cardine di questo nuovo pensiero economico, e le sue caratteristiche inderogabili: «Primo, riguardo alla struttura della proprietà, si mantiene il settore pubblico in posizione dominante, lo si integra con un settore privato che include imprese a proprietà individuale e altri settori, e si permette a diversi settori economici di svilupparsi fianco a fianco. Secondo, riguardo la distribuzione, si mantiene la distribuzione in base al lavoro in posizione dominante, e la si integra con altri modi, e si permette e si incoraggia alcune località ed individui a prosperare per primi, e, gradualmente, si ottiene la prosperità per tutti e si previene la polarizzazione. Terzo, riguardo ai meccanismi operativi dell’economia, si ottiene un’integrazione, organica e a lungo termine, dell’economia pianificata e dell’economia di mercato; si fa pieno uso dei vantaggi di entrambi; si promuove l’ottimizzazione della distribuzione delle risorse; e si compiono ragionevoli rettifiche alla distribuzione sociale» (Jiang Zemin, Selected Works, vol. I, Foreign Languages Press, Pechino, 2013, p. 192). Che l’elaborazione di un proprio sistema economico socialista, sganciato da precetti obsoleti e assiomi importati da altri modelli, funzioni efficacemente, la Repubblica Popolare Cinese è lì a dimostrarlo.
Il socialismo, principio inderogabile per lo sviluppo
Nonostante la Cina abbia deciso di
inserire alcuni elementi di mercato nella propria economia, non si
tratta affatto di un esperimento “ibrido” né di social-capitalismo
(sic!) come alcuni hanno pensato, ma di una necessaria evoluzione, in
base ai tempi, dei precetti base del socialismo. «Abbiamo fermamente
integrato i principi base del marxismo con le realtà concrete della Cina
e abbiamo gradualmente formulato la Teoria di Deng Xiaoping, che è la
teoria della costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi. In
pratica, abbiamo preso la via della costruzione del socialismo con
caratteristiche cinesi e abbiamo ampiamente cambiato faccia a questo
paese. Internazionalmente, alcuni credono che stiamo prendendo la via
capitalista o la “terza via”. Queste interpretazioni sono sbagliate.
Stiamo fedelmente seguendo la via socialista e stiamo costruendo il
socialismo con caratteristiche cinesi» (Jiang Zemin, Selected Works,
vol. II, Foreign Languages Press, Pechino, 2013, p. 188).
I dirigenti del PCC, anche dopo l’inizio della riforma, non hanno mai abbandonato né il marxismo né il pensiero di Mao Zedong (che rimangono i capisaldi anche nella riforma), ma hanno cercato di dar loro nuova linfa vitale e attualità. Conferendo al primo il necessario adattamento nazionale, unico modo per poter creare un socialismo a misura cinese, e conferendo al secondo un’interpretazione più pragmatica, fuori da ogni radicalismo e da ogni distorsione, in questo si sono poste le basi per la teoria del socialismo con caratteristiche cinesi. L’attualità del socialismo è dimostrabile solo quando esso è capace di evolversi e, in ogni nuova congiuntura storica, adattarsi e acquisire nuove teorie e nuove realtà. Il socialismo non può limitarsi ad essere quella “inderogabile necessità” conclamata a suo tempo da Bordiga, ma dev’essere concreto e realista, e per poterlo essere deve saper diventare il deus ex machina di ogni paese in ogni sua fase.
In Cina, questo lo si è ben compreso. Dopo la riforma e le trasformazioni economiche, anche l’ideologia socialista è passata attraverso nuovi adattamenti e sviluppi. Già l’opera di Deng Xiaoping non si limitò ad una fondamentale e necessaria revisione della base economica, ma si districò anche nello scenario politico degli anni ‛80, in lotta contro i due nemici principali dei quel periodo: il liberalismo e il radicalismo.
Un nemico acerrimo di qualsiasi ideale socialista, e purtroppo ancora (apparentemente) vitale in buona parte del globo, è il liberalismo, è lo è sempre stato soprattutto in Cina; da Mao, che lo definì «decadente e filisteo», dettato dalla mancanza di disciplina, dalla lascivia, e dall’individualismo, a Deng, che intravide nel liberalismo un tentativo di distruggere la Cina importando la democrazia borghese e modelli occidentali. Così riassunse Deng Xiaoping i nuovi compiti della leadership cinese nella lotta contro il liberalismo: «La democrazia può svilupparsi solo gradualmente, non copiando la democrazia occidentale. Se lo facessimo, tutto diventerebbe un caos. La nostra costruzione socialista può essere sviluppata solo sotto una leadership, in modo ordinato e in un ambiente di stabilità e di unità. Ecco perché do tutta questa enfasi alla necessità di alti ideali e ferrea disciplina. La liberalizzazione borghese getterebbe il paese in tumulto un’altra volta. La liberalizzazione borghese significa rigettare la leadership del Partito; non ci sarebbe più un centro attorno al quale unire un miliardo di persone, e il Partito stesso perderebbe ogni capacità di combattere. Un partito del genere non sarebbe più un’organizzazione di massa; come potrebbe guidare il popolo nell’edificazione?» (Deng Xiaoping, Prendere una posizione netta contro la liberalizzazione borghese, 30 dicembre 1986).
Ma, all’altro capo e, per certi versi concettualmente simile al liberalismo, c’è il radicalismo, e tutte le tendenze dogmatiche e volontaristiche. Rovesciando la banda dei quattro, Deng Xiaoping ha rotto con la tradizione radicale della rivoluzione culturale, fissa su determinati dogmi e schiva ad ogni innovazione creativa in campo ideologico. Il radicalismo, come il liberalismo, rifiutando uno sviluppo creativo del socialismo e trincerandosi dietro diversi dogmi (“lotta di classe” e “marxismo applicato alla lettera” da una parte, “democrazia liberale” e “diritti umani occidentali” dall’altra), sarà sempre un impedimento allo sviluppo socialista di qualsiasi nazione.
I dirigenti del PCC, anche dopo l’inizio della riforma, non hanno mai abbandonato né il marxismo né il pensiero di Mao Zedong (che rimangono i capisaldi anche nella riforma), ma hanno cercato di dar loro nuova linfa vitale e attualità. Conferendo al primo il necessario adattamento nazionale, unico modo per poter creare un socialismo a misura cinese, e conferendo al secondo un’interpretazione più pragmatica, fuori da ogni radicalismo e da ogni distorsione, in questo si sono poste le basi per la teoria del socialismo con caratteristiche cinesi. L’attualità del socialismo è dimostrabile solo quando esso è capace di evolversi e, in ogni nuova congiuntura storica, adattarsi e acquisire nuove teorie e nuove realtà. Il socialismo non può limitarsi ad essere quella “inderogabile necessità” conclamata a suo tempo da Bordiga, ma dev’essere concreto e realista, e per poterlo essere deve saper diventare il deus ex machina di ogni paese in ogni sua fase.
In Cina, questo lo si è ben compreso. Dopo la riforma e le trasformazioni economiche, anche l’ideologia socialista è passata attraverso nuovi adattamenti e sviluppi. Già l’opera di Deng Xiaoping non si limitò ad una fondamentale e necessaria revisione della base economica, ma si districò anche nello scenario politico degli anni ‛80, in lotta contro i due nemici principali dei quel periodo: il liberalismo e il radicalismo.
Un nemico acerrimo di qualsiasi ideale socialista, e purtroppo ancora (apparentemente) vitale in buona parte del globo, è il liberalismo, è lo è sempre stato soprattutto in Cina; da Mao, che lo definì «decadente e filisteo», dettato dalla mancanza di disciplina, dalla lascivia, e dall’individualismo, a Deng, che intravide nel liberalismo un tentativo di distruggere la Cina importando la democrazia borghese e modelli occidentali. Così riassunse Deng Xiaoping i nuovi compiti della leadership cinese nella lotta contro il liberalismo: «La democrazia può svilupparsi solo gradualmente, non copiando la democrazia occidentale. Se lo facessimo, tutto diventerebbe un caos. La nostra costruzione socialista può essere sviluppata solo sotto una leadership, in modo ordinato e in un ambiente di stabilità e di unità. Ecco perché do tutta questa enfasi alla necessità di alti ideali e ferrea disciplina. La liberalizzazione borghese getterebbe il paese in tumulto un’altra volta. La liberalizzazione borghese significa rigettare la leadership del Partito; non ci sarebbe più un centro attorno al quale unire un miliardo di persone, e il Partito stesso perderebbe ogni capacità di combattere. Un partito del genere non sarebbe più un’organizzazione di massa; come potrebbe guidare il popolo nell’edificazione?» (Deng Xiaoping, Prendere una posizione netta contro la liberalizzazione borghese, 30 dicembre 1986).
Ma, all’altro capo e, per certi versi concettualmente simile al liberalismo, c’è il radicalismo, e tutte le tendenze dogmatiche e volontaristiche. Rovesciando la banda dei quattro, Deng Xiaoping ha rotto con la tradizione radicale della rivoluzione culturale, fissa su determinati dogmi e schiva ad ogni innovazione creativa in campo ideologico. Il radicalismo, come il liberalismo, rifiutando uno sviluppo creativo del socialismo e trincerandosi dietro diversi dogmi (“lotta di classe” e “marxismo applicato alla lettera” da una parte, “democrazia liberale” e “diritti umani occidentali” dall’altra), sarà sempre un impedimento allo sviluppo socialista di qualsiasi nazione.
Leonardo Olivetti
Fonte: Stato e Potenza
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