di Antonino Galloni
Fonte: Conflitti e strategie
In
calce la relazione tenuta da Antonino Galloni in un convegno
organizzato il 18/19 ottobre dall’Istituto Schiller a Francoforte
Al
momento dell’entrata in vigore della Costituzione del 1948, quindi a
distanza di qualche anno dalla fine del secondo conflitto mondiale, la
produzione industriale ed agricola dell’Italia non raggiungeva i livelli
di dieci anni prima. Problema cruciale riguardava le fonti energetiche
dopo che il fascismo aveva contenuto il problema con un sistema
idroelettrico d’avanguardia, ma che mostrava – strategicamente parlando –
notevoli limitazioni. D’altra parte, la fase del petrolio era iniziata
da prima della guerra e, anzi, i Paesi non produttori di idrocarburi
l’avevano persa anche per questo (come molti studiosi di quel conflitto
hanno dimostrato); era anche iniziata la sfida atomica che, dopo esser
risultata anch’essa determinante ai fini bellici, cominciava a
promettere un’utilizzazione industriale e civile di grande interesse:
non fu un caso, infatti, se gli accordi di Bretton Woods del 1944
precedettero la conferenza di Yalta (un anno prima di Hiroshima e
Nagasaki, infatti, si sapeva già con certezza chi avrebbe vinto,
possedendo, appunto, l’arma atomica).
Il
fascismo, peraltro, aveva affrontato e, per certi versi, risolto i
problemi della crisi finanziaria ed economica degli anni Trenta con un
intervento pubblico d’avanguardia che spaziava dal credito (la legge di
separazione bancaria – in USA fu la Glass Steagall – del 1936), alle
infrastrutture (ponti, strade, ferrovie), alle industrie (l’IRI ed altre
partecipate, gestite con logiche prettamente economiche, ma di
proprietà dello Stato), all’agricoltura (le bonifiche e non solo), alla
produzione di elettricità, come si è già accennato. Lo stesso fascismo
aveva costituito l’AGIP, ma con scarse fortune e l’ex partigiano Mattei
(a cui, peraltro, si rinfacciava anche una pregressa tessera del
Littorio) fu incaricato, dopo il 1945, di liquidarla; incarico che
svolse malissimo – secondo i politici di sinistra del tempo (che
vedevano nell’AGIP un comico carrozzone autarchico e quelli di destra
quando si accorsero dell’impostazione antiamericana del marchigiano –
perché Mattei prima traccheggiò, poi delineò una strategia di
allargamento della missione dell’Ente, infine riuscì ad impedire che il
Parlamento italiano varasse una legge che consentiva agli USA di
detenere una sorta di monopolio in materia.
Figuriamoci,
dunque, l’entusiasmo che poté suscitare la scoperta di idrocarburi
nella pianura padana e dintorni e la possibilità di rivisitare una
piccola partecipata pubblica per farne, già sul finire degli anni ’40,
qualcosa che potesse aiutare l’Italia ad uscire da una millenaria
insufficienza energetica.
Mattei,
dunque, si mise a capo di ciò, incontrando non poche resistenze, vinte
grazie ai suoi appoggi politici, in parte democristiani, ma anche di
altri partiti di sinistra (sfruttando l’aspetto antimperialistico della
sua intrapresa), lui che poteva vantare un trascorso da partigiano di
tutto rispetto.
Ma
il progetto di Mattei fu ben più articolato ed ambizioso: partendo
dall’occasione di un fatto che, tutto sommato, sarebbe stato marginale
(il ben poco petrolio e gas della pianura padana e del mare adriatico)
e, grazie ad uno spregiudicato utilizzo degli appoggi politici e delle
influenti amicizie internazionali (soprattutto Unione Sovietica e Paesi
Arabi), riuscì ad assicurare all’Italia un flusso di gas e di
idrocarburi senza il quale nessun miracolo economico sarebbe stato
possibile; Enrico Mattei cominciò con accordi in sordina presso lo Scià
di Persia (dopo il fatale errore USA di eliminare l’intraprendente
Mossadeq), ma è noto nel mondo per i rivoluzionari accordi con i Paesi
Arabi (apprezzati dai Russi che vi vedevano una maggiore giustizia
sociale e, soprattutto, un indebolimento degli interessi e
dell’influenza angloamericana nell’area) e che prevedevano un’equa
spartizione dei guadagni tra produttori e compratori. Fino a Mattei,
infatti, i compratori erano più che altro le compagnie petrolifere
occidentali – sinistramente note come le “7 sorelle” – che pagavano il
greggio una miseria; Mattei offrì il 75% dei profitti in cambio delle
licenze di estrazione, consentendo agli Arabi di guadagnare molto di
più, di contenere i prezzi degli idrocarburi in Italia, di spiazzare
l’agguerrita concorrenza americana, inglese, olandese ed anche francese.
In effetti, si può dire – da una parte – che Mattei gettasse con dieci
anni di anticipo le basi dell’OPEC e, tuttavia, l’operazione più molesta
(secondo gli osservatori filocolonialisti) fu proprio quella in Algeria
dove si rifiutò di sottoscrivere un allettante contratto con le 7
Sorelle schierandosi apertamente per il futuro Stato indipendente. In
questo modo costrinse le 7 Sorelle o ad appoggiare la Francia andando da
sole o a schierarsi con gli indipendentisti!
Fu
minacciato dai servizi della legione straniera francese e di lì a poco
il suo aereo venne sabotato, in Sicilia, da mafiosi amici degli amici
d’oltre confine.
La
sua morte, avvenuta in modo non molto misterioso nel 1962, fu subito
ricondotta a tali circostanze (non meno promettente, peraltro, si rivelò
la “pista interna”, riguardante il suo braccio destro Eugenio Cefis che
lo stesso Mattei scoprì e denunciò quale collaboratore della CIA); e le
prove dell’attentato al suo aereo tramite una bomba al tritolo,
collegata all’accensione delle luci o all’attivazione del carrello di
atterraggio, furono acclarate dalla magistratura…43 anni dopo!
Ma
sarebbe riduttivo ricordare unicamente la sua grande figura per le
circostanze sin qui descritte: Mattei fu e fece molto di più.
Non
è difficile argomentare che l’ottenimento delle licenze richiedeva, a
monte, la capacità di estrarre – in modo competitivo rispetto alle
stesse 7 sorelle – il petrolio da giacimenti sempre più profondi; e, a
valle, di disporre di impianti di raffinazione adeguati, per non parlare
delle problematiche connesse al trasporto ed alla distribuzione.
Tutta
la strategia di Mattei era basata sulle concessioni estrattive; ma
Mattei volle un’ampia integrazione verticale di tutta la macchina che
andava dalla ricerca di giacimenti fino alle pompe di benzina e oltre;
così nacquero società di impiantistica ed un’industria petrolchimica che
furono tra le migliori del mondo se non le migliori.
Grazie
all’aumento delle economie di scala proprie delle industrie italiane –
oramai lanciate nel contesto internazionale – Mattei siglò accordi con
la Russia, con la Cina e con altri importanti Paesi di quasi tutti i
continenti per la costruzione di importanti infrastrutture; ma ciò
portava con sé la formazione, la cultura, l’ampliamento degli scambi
internazionali.
Alla
morte di Mattei e nel ventennio successivo, l’ENI non mancò di crescere
per divenire uno dei più grandi, se non il più grande, colosso mondiale
(se si considerano le complementarietà con gli altri enti italiani a
partecipazione statale, in primis l’IRI) dell’energia, della
petrolchimica e delle infrastrutture.
Il
successo di Mattei e dell’ENI fu reso possibile da una cultura
capitalistica che vedeva nella crescita delle vendite il suo principale
riferimento: la massimizzazione del profitto non si riferiva alla sua
incidenza sul capitale o investimento, ma alla massima crescita di
quest’ultimo a condizioni del mercato, vale a dire di espansione
sostenuta dalla domanda (pubblica o privata che fosse). Fiore
all’occhiello di questa impostazione fu il salvataggio di un’industria
meccanica fiorentina – il Pignone – fortemente caldeggiata dall’allora
sindaco di Firenze, Giorgio La Pira (quello un santo), salvataggio che
si rivelò un successo industriale, consentendo il lancio di un’azienda
leader a livello mondiale nel comparto delle turbine (per la cronaca,
l’azienda fu poi svenduta, alla fine degli anni ’90, dai governi con
partecipazione comunista – si fa per dire – alla General Electric che
provvide a indebolirla ed a farla a pezzi).
Quella
di Mattei (considerato un grande peccatore ed un grande corruttore,
infatti soleva giustificarsi quando gli si obiettava che destinava fondi
neri un po’ a tutti i partiti che questi ultimi venivano utilizzati
“come taxi, salgo, li utilizzo, pago, scendo”) e di La Pira (il santo,
un vero santo) è una cultura che caratterizza tutta la storia
dell’economia dagli accordi di Bretton Woods fino alle svolte
reazionarie alla fine degli anni ’70. Queste ultime, infatti, hanno
posto ad obiettivo cruciale delle attività produttive la massimizzazione
del rendimento dell’investimento o saggio di profitto: un indicatore di
natura finanziaria, comune alle obbligazioni (imperanti, con alti tassi
di interesse, durante gli anni ’80) ed alle azioni. Dopo la fine degli
anni ’70, dunque, l’economia reale viene sacrificata – come è noto –
sull’altare della finanza e delle sue irrealizzabili promesse che aprono
al baratro degli impegni non sostenibili, dei debiti a go go e della
bancarotta generale in un quadro di crescente disoccupazione e desolante
regresso sociale.
Tutto
il contrario avveniva ai tempi di Mattei ed anche per un quindicennio a
seguire: l’espansione costituiva il fondamento dello sviluppo economico
sia per quanto riguardava le imprese capitalistiche, sia per quanto
riguardava gli investimenti pubblici. La formula italiana, peraltro, si
era rivelata particolarmente efficiente soprattutto a proposito delle
imprese – di cui l’ENI, assieme all’IRI, rappresentava il massimo – di
proprietà dello Stato, ma gestite con criteri di economicità. In realtà,
il tasso di rendimento, dell’ultimo investimento puntava a zero, ma
siccome si massimizzavano l’occupazione ed il reddito totale, si
minimizzavano le spese di assistenza ai disoccupati: non si dimentichi
mai che il fenomeno migratorio degli Italiani all’estero si riduce con
la crescita delle industrie a partecipazione statale.
La
crescita degli investimenti fisici, a prescindere dal reddito da essi
direttamente ed immediatamente generato, costituisce la chiave di volta
dello sviluppo economico e sociale; esso, tuttavia, portava alla
tendenza a ridursi del saggio del profitto con la duplice conseguenza di
emarginare il ruolo della proprietà nell’azienda e nella società e di
far crescere le aspettative democratiche della classe media e dei
lavoratori.
Contro
tale prospettiva, un quindicennio dopo la morte di Mattei, si scatenò
la reazione antidemocratica dei ceti possidenti che, in nome del
rendimento finanziario della proprietà, dei limiti nello sfruttamento
delle risorse del pianeta, del contenimento delle tasse e della spesa
pubblica, cominciarono ad ottenere un capovolgimento culturale e di
prospettive economiche.
Mattei
aveva intuito l’importanza dell’ambiente e del nucleare (non si
dimentichi che l’Italia era all’avanguardia in quest’ultimo settore fino
all’inizio degli anni ’60 ed aveva raggiunto la prima centrale che non
utilizzava uranio arricchito o militare e, si osservava, anche questo
aveva dato fastidio a livello internazionale: infatti dagli USA e dalla
Francia provenivano veti e limitazioni di sovranità verso il Belpaese.
All’ENI
ed all’IRI sapevano – contrariamente alle errate farneticazioni
malthusiane del club di Roma e dintorni – che, al crescere
dell’innovazione tecnologica, la quantità di agenti inquinanti e di
risorse scarse o pregiate per unità di prodotto tendeva a ridursi.
Viceversa, la artificiosa limitazione dello sviluppo (e, in seguito, le
caratteristiche della globalizzazione non basata su innovazione e
qualità, ma solo sul taglio selvaggio dei costi), contenendo
l’avanzamento delle tecniche – che è un portato dello sviluppo e della
esigenza di ridurre le risorse per unità di prodotto al crescere di esso
– determina l’aumento di inquinamento e cattivo utilizzo delle risorse
stesse proprio a causa dello scarso avanzamento dell’intensità
energetica.
Nessuno
può dire cosa avrebbe fatto Mattei in Italia e nel mondo dopo il 1962,
ma certamente possiamo ipotizzare che, oggi, la sua massima attenzione
sarebbe per i BRICS e che avrebbe appoggiato, in tutti i modi, le forze
politiche che avessero aperto un dialogo ed una collaborazione con
Russia, Cina e India finalizzato a definire un sistema mondiale idoneo a
proseguire un percorso accettabile di civiltà e di benessere
generalizzato; comunque, sappiamo che i suoi successori non fecero
crescere la diversificazione produttiva dell’ENI neanche durante il
ventennio compreso tra la fine violenta del grande imprenditore e
l’inizio di una politica economica fortemente penalizzante per la
sovranità del Paese.
Le
stesse industrie a partecipazione statale – che tutto il mondo ci
invidiava – venivano derise da giornalisti ed osservatori di scarso
spessore che le additavano ad imprese inutili, in perdita e mera fonte
di corruzione. La Storia ci ha spiegato quanto esse siano state
fondamentali per l’eccezionale sviluppo del Paese tra la fine degli anni
cinquanta ed i ’70; analisi di studiosi seri hanno indicato come le
industrie a partecipazione statale facessero investimenti più elevati
delle private, sicchè, sommando profitti ed ammortamenti, si ottenevano
saggi di redditività lordi non diversi; la corruzione, invece,
rappresentava un problema serio, ma la fine del modello a partecipazione
statale e degli elevati investimenti pubblici ha provocato, in Italia,
la fine dello sviluppo pur senza evidenziare alcuna riduzione, ad oggi,
dei fenomeni di corruzione: i quali, evidentemente, devono e possono
essere affrontati a prescindere dall’aver condannato alla disoccupazione
a vita milioni di giovani Italiani quale conseguenze delle politiche
restrittive volute da circa trent’anni per “moralizzare” il Paese (come
si è già detto, con risultati ben scarsi nella lotta alla corruzione e,
invece, particolarmente rilevanti nella perdita di sovranità, nel crollo
degli investimenti, nel ritardo scolastico, scientifico, sanitario,
infrastrutturale).
L’attualità
di Mattei richiede, quindi, il ritorno ad un’economia sostenibile in
termini sociali, con investimenti pubblici, ricerca, scuola, formazione,
infrastrutture adeguate, soddisfacente cura delle persone: obiettivi
non conseguibili senza un ritorno alla sovranità monetaria, il
ripristino della netta separazione tra banche di credito e finanza
speculativa, una pubblica amministrazione che si faccia direttamente
carico di collaborare con i cittadini per realizzare gli adempimenti
previsti da leggi e regolamenti. Tutto ciò in un contesto di
cooperazione tra Stati sovrani che, nello spirito del Trattato di
Westfalia, si rispettino, nel comune interesse a crescere e scambiarsi
esperienze e capacità. Era questo, infatti, il metodo di Mattei e di
tanti altri grandi statisti italiani oggi scomparsi, ma non per questo
meno attuali: dialogare tra popoli e culture diverse mettendo a
disposizione risorse e capacità con l’unico obiettivo di vedere una
crescita economica sostenibile perché adeguata alle esigenze di
benessere e di libertà delle popolazioni.
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