Ecco perché a Mosca va bene lo scenario di "conflitto congelato" che si sta consolidando
di Mara Carro
Il 2 novembre nei territori delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk si è votato per eleggere i presidenti e rinnovare i parlamenti locali. Nelle due regioni sotto il controllo dei separatisti filo-russi, così come in Crimea, annessa dalla Russia, non si era votato il 26 ottobre per le elezioni legislative ucraine vinte dal blocco filo-occidentale composto dal Fronte Popolare dell’attuale primo ministro, Arseny Yatseniuk, e il Blocco di Poroshenko del presidente Petro Poroshenko.
Il voto nelle regioni ucraine controllate dai separatisti non ha
riservato sorprese: gli attuali leader dei ribelli, Aleksandr
Zakharchenko a Donetsk e Igor Plotnitsky a Luhansk, hanno mantenuto le
loro cariche.
Il governo ucraino di Kiev, l’Unione Europea e gli Stati Uniti non
hanno riconosciuto i risultati del voto. Funzionari europei e americani
hanno fatto notare che le elezioni nella Repubblica Popolare di
Donetsk e nella Repubblica Popolare di Lugansk sono un'aperta violazione
del Protocollo di Minsk, firmato il 5 settembre. Il Protocollo
adottato nella capitale bielorussa riporta le conclusioni dei negoziati
condotti dal “gruppo di contatto” formato dal presidente ucraino
Porošenko, dal capo di Stato russo Vladimir Putin e dall’Organizzazione
per la sicurezza e la cooperazione in Europa per garantire una tregua
duratura tra le due regioni indipendentiste e il governo di Kiev. L’accordo prevedeva elezioni anticipate nelle due regioni separatiste sulla base della legislazione ucraina.
Secondo il ministero degli Esteri di Mosca, il protocollo originale
programmava le elezioni tra il 19 ottobre e il 3 novembre. Le autorità
ucraine, con una legge firmata dal presidente Poroshenko, le avevano
programmate per il 7 dicembre.
L’unico ad aver riconosciuto il risultato delle elezioni è stato il governo russo.
Mosca ha anche posto il veto ad una risoluzione delle Nazioni Unite
presentata dalla Lituania che condannava il voto nelle regioni
dell’Ucraina orientale e lo definiva una violazione del protocollo di
Minsk. Il 3 novembre, il ministro degli Esteri russo ha emesso una nota
in cui ha riconosciuto come valide le elezioni tenute a Donetsk e
Lugansk. Mosca aveva fatto lo stesso con quelle che si erano tenute il 26 ottobre in Ucraina. “Le
elezioni nelle regioni di Donetsk e di Lugansk si sono svolte nel
complesso in maniera ordinata, e con un'elevata affluenza di elettori
alle urne. Noi rispettiamo l'espressione della volontà degli abitanti
del Sud Est. I rappresentanti eletti hanno ricevuto mandato di risolvere
le questioni pratiche per il ripristino delle normali condizioni di
vita in queste regioni", si legge nella nota diramata dal ministero degli Esteri russo.
"In considerazione delle elezioni che si sono svolte”, si legge nel
comunicato del ministero degli Esteri russo, “è estremamente importante
intraprendere rapidamente delle azioni per instaurare un dialogo
stabile tra il potere centrale dell'Ucraina e i rappresentanti del
Donbass, nell'ambito degli accordi raggiunti a Minsk". Kiev però
percepisce questo dialogo come una legittimazione delle autorità elette
nel Donbass a detrimento dell’obiettivo dell’unità territoriale ucraina.
Mosca non ha – per ora - espresso alcun sostegno formale per l’indipendenza delle regioni separatiste
ma il riconoscimento delle elezioni potrebbe essere letto come un
abbandono di fatto del processo avviato a Minsk. Il Cremlino si era
impegnato nel processo negoziale per giungere ad una soluzione di
compromesso con le controparti europea e ucraina, nel tentativo di
vedere un alleggerimento delle sanzioni. Ma così non è stato e ora
Washington e Bruxelles tornano a minacciare Mosca con nuovi “costi”.
Con queste elezioni nelle repubbliche autoproclamate di Donetsk e
Luhansk, i separatisti vogliono conservare il potere conquistato sul
terreno. Vogliono staccarsi legittimamente da Kiev e rafforzare la loro
posizione contrattuale, non solo nei confronti de governo ucraino, ma
anche verso l'Unione europea e gli Stati Uniti che hanno sempre assunto
una posizione rigida nei confronti dei separatisti del Donbass.
Il risultato - plasmato da Mosca - sarà un altro "conflitto
congelato", uno dei tanti dell'era post-sovietica, come per la
Transnistria, l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud e il Nagorno-Karabakh.
Per la politica russa, questo tipo di conflitto congelato è un terreno
familiare, e alla fine ben accetto dal momento che finirà per tutelare
gli interessi russi. Una volta consolidato il controllo sui territori
che Putin ha identificato come la "Novorossiya", il presidente russo
avrà raggiunto il suo obiettivo strategico principale in Ucraina: utilizzare
i territori che controlla nella parte orientale del paese per
influenzare e/o destabilizzare il governo centrale di Kiev ed impedire
una piena integrazione dell’Ucraina nel blocco occidentale.
Per il momento, c’è poco che la dirigenza ucraina possa fare. La scorsa
primavera Kiev ha abbandonato la Crimea senza combattere e il tentativo
di fermare la secessione di Luhansk e Donetsk con le armi ha provocato
gravi sconfitte militari durante l'estate.
Secondo il cessate il fuoco firmato a Minsk, il presidente Petro Poroshenko deve accettare lo status quo
in Ucraina orientale. Questa decisione è stata dettata non solo dalla
debolezza militare di Kiev e dal sostanziale rifiuto di Ue e Usa di
impegnarsi in uno sconto aperto con la Russia, ma anche dalle grandi
sfide politiche, economiche e finanziarie che l’Ucraina si trova ad
affrontare.
La Crimea e l’Ucraina orientale sono solo altri due dei numerosi problemi che si presentano alla nuova dirigenza ucraina.
Fonte: L'Antidiplomatico
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