
Con la caduta del Muro di Berlino e
dell’Unione Sovietica e con le riforme pragmatiche avviate in Cina, le
elités capitaliste e imperialiste occidentali che credevano di aver
messo la parola “fine” sulla Storia, non potevano più sbandierare
quell’anticomunismo che per cinquant’anni aveva fornito l’alibi per
guerre disastrose (Corea e Vietnam), colpi di Stato (Cile 1973),
sovversioni politiche (Operazione Gladio) e che aveva consentito
all’Europa occidentale di compattarsi con gli Stati Uniti di fronte al
pericolo della “minaccia rossa”. L’anticomunismo sarebbe sempre rimasto
tra gli elementi principali dell’ideologia imperialista ma non poteva
essere più usato per giustificare le offensive che l’Alleanza Atlantica,
uscita “vincitrice” dalla Guerra Fredda, avrebbe scatenato in Europa e
nel mondo a partire dagli anni Novanta.
I nuovi cavalli di battaglia
dell’imperialismo americano sono stati la caccia al “dittatore” di
turno, come nel caso delle guerre contro l’Iraq, la Iugoslavia e la
Libia, l’islamofobia, adeguatamente mascherata da lotta al terrorismo,
da dare in pasto più che altro all’opinione pubblica visto che gli USA
non hanno mai disdegnato di fomentare per i loro scopi le frange più
estreme del jihadismo e, infine, la russofobia.
Quest’ultima, specialmente negli ultimi
anni – e diventata a dir poco isterica negli ultimi mesi – sembra essere
diventata la nuova ideologia ufficiale dell’Unione Europea e della
NATO: un’ideologia che mira a diffondere diffidenza e odio tra l’Europa e
la Russia e a troncarne i legami soprattutto politico-economici ma
talvolta, e sempre più spesso, persino culturali e umani. Il vecchio
apparato propagandistico anticomunista si è riciclato in questa nuova
crociata contro la Russia, facilitato dal fatto che per oltre
settant’anni Russia e comunismo sono stati praticamente sinonimi. I
propagandisti russofobi amano ritrarre la Russia odierna con toni
grotteschi e caricaturali, amano screditare la figura del presidente
Vladimir Putin definendolo invariabilmente dittatore e oligarca e
accostandolo di volta in volta a uno Zar, a Hitler, a Stalin o a
Breznev.
Con la crisi ucraina e dopo che Putin ha
impedito un attacco occidentale contro la Siria, cioè nell’ultimo anno,
la propaganda anti-russa è definitivamente esplosa. Chi ha allargato la
NATO ben oltre previsto portandone le sue basi militari fino al Baltico
e al Mar Nero accusa Putin di voler ricreare un “impero” russo; chi ha
promosso il colpo di Stato di piazza Maidan in Ucraina che ha portato al
potere un’aggressiva cricca di politici filo-americani e di neo-nazisti
accusa Putin di aver invaso la regione del Donbass per annetterla e di
averlo già fatto con la Crimea. Sulla base di queste accuse false
l’Unione Europea, spinta dagli Stati Uniti, ha applicato sanzioni
economiche contro la Russia e ha moltiplicato i motivi di tensione con
Mosca.
I Paesi europeisti che vogliono
mantenere legami con la Russia sono sotto pressione così come lo sono i
Paesi che non fanno parte dell’UE, come la Serbia e la Moldavia. In
Serbia desta irritazione (dalle parti di Washington e Bruxelles) il
rifiuto del governo di aderire alle sanzioni anti-russe; inoltre il
ritorno di Vojislav Seselj, leader storico del Partito Radicale Serbo,
nazionalista, anti-americano ed anti-europeista, che è tornato in patria
dopo essere stato rilasciato dal Tribunale dell’Aja dopo un processo
durato 11 anni e senza verdetto (per evidente mancanza di prove), può
spingere la Serbia a tenersi un po’ più lontana dall’assurdo abbraccio
mortale con l’UE previsto per il 2019. In Moldavia alle elezioni di
domenica 30 novembre al partito filo-russo “Patria” è stato impedito di
partecipare alle elezioni, adducendo come motivazione alcuni presunti
fondi illegali ricevuti dal partito e delle intercettazioni ai danni del
suo leader. I sondaggi davano a “Patria” percentuali tra l’8% e il 14%.
La Moldavia è un “osservato speciale” dall’imperialismo occidentale a
causa della forte inclinazione filo-russa di metà del Paese. In
Repubblica Ceca, in occasione della commemorazione dei 25 anni della
“Rivoluzione di velluto” che pose fine al socialismo reale, è avvenuta
una manifestazione di protesta contro il presidente Milos Zeman accusato
di essere troppo “amico” della Russia. Zeman, eletto l’anno scorso, è
un socialdemocratico perdipiù europeista, ma è finito nel mirino per la
sua opposizione alle sanzioni anti-russe e, recentemente, per alcuni
frasi pronunciate alla radio in cui ha rivolto pesanti epiteti contro il
gruppo punk delle Pussy Riot. I manifestanti di Praga, in gran parte
vicini alle ONG che spesso promuovono rivoluzioni colorate, hanno
lanciato slogan contro Zeman e per una Repubblica Ceca che non sia “di
nuovo serva” della Russia. Per loro, forse, è meglio continuare ad
essere servi degli Stati Uniti. Il presidente Zeman in tutta risposta ha
invitato Putin alle commemorazioni per il 70° anniversario della
liberazione che si terranno l’anno prossimo.
Si potrebbe continuare così ancora per
molto, citando i tanti episodi, a volte persino ridicoli, di russofobia
che proliferano nei Paesi alleati degli americani, e soprattutto in quei
Paesi che con la Russia hanno sempre avuto stretti rapporti, in
particolare Francia, Italia e Germania.
Ma questa politica ha raggiunto il suo
picco in Polonia e nelle tre repubbliche Baltiche – Estonia, Lettonia e
Lituania – dove il nuovo atlantismo si è sommato al vecchio sciovinismo
che in quei paesi durante la restaurazione capitalista ne ha fatto da
cassa di risonanza. Dopo la fine del Patto di Varsavia è facile vedere
come con il crollo del socialismo reale sia venuta meno anche la
fratellanza tra i popoli slavi che aveva caratterizzato l’alleanza.
L’inopinata espansione della NATO verso Est non ha fatto altro che
soffiare sul fuoco favorendo il sentimento anti-russo che alberga in
parte delle società di quei Paesi. Così la Polonia che negli anni
Ottanta fu effettivamente la “testa di ponte” usata dall’imperialismo
americano per sfondare il blocco orientale, grazie al sindacato di Lech
Walesa Solidarnosc (finanziato dall’Occidente) e all’azione
anticomunista del papa Giovanni Paolo II, è tornata ad essere, negli
anni Duemila, un utile avamposto contro la Russia di Vladimir Putin. La
Polonia europeista e atlantica, che si fa forte della sua crescita
economica, è entusiasta promotrice dello scudo anti-missile americano
ufficialmente diretto contro la minaccia (?) dell’Iran ma in realtà
rivolto contro la Russia, come lo stesso Putin ha affermato; ha
arruolato la religione cattolica nella crociata contro la Chiesa
Ortodossa, che viene spesso demonizzata anche da certo “movimentismo”
occidentale; ha messo al bando, nel 2009, il simbolo comunista della
falce e martello con pene fino a due anni per i trasgressori. Infine,
all’inizio di quest’anno i vertici polacchi hanno apertamente appoggiato
la sovversione in Ucraina contro il governo del presidente Yanukovich,
sfruttando i forti legami storici e culturali che Varsavia ha con la
parte occidentale del Paese (dove c’è Leopoli). E probabilmente non è un
caso che il nuovo presidente del Consiglio Europeo sia l’ex primo
ministro polacco Donald Tusk, un liberale fortemente filo-europeo: alla
luce della crisi tra Occidente e Russia questa non sembra certo una
mossa saggia che possa andare verso la strada del dialogo.
Nei tre Paesi Baltici, lo stato delle
ostilità verso la Russia è, se possibile, ancora più grave e marcato che
in Polonia. In queste ex repubbliche sovietiche si consumano episodi
che dovrebbero far allarmare le organizzazioni a difesa della democrazia
e dei diritti umani, sempre solerti nel bacchettare gli Stati che non
si piegano al “Washington consensus”. In questi Paesi sono state portate
avanti politiche “estonizzazione”, di “lettonizzazione” e
“lituanizzazione” che più che essere un’affermazione di identità
nazionale sembrano essere fatte ad hoc per discriminare le minoranze
russe e bielorusse ma anche polacca. I Russi non sono considerati
cittadini a tutti gli effetti ma “alieni”. Non vi sono leggi che
legittimano l’uso della lingua russa, nonostante in alcune zone
dell’Estonia, per esempio, essa sia parlata dalla quasi totalità della
popolazione, come nella regione di Narva. In Lettonia dove vi è un 30%
di russi, la lingua russa è considerata esplicitamente una lingua
“forestiera”. I nomi russi nei documenti vengono tradotti; i programmi
radio e tv in lingua russa hanno vita difficile. In Lettonia le scuole
superiori in lingua russa, attive da più di duecento anni, sono state
costrette ad assimilarsi alla lingua lettone. Molte professioni
pubbliche sono vietate ai Russi. La storia viene riscritta demonizzando
il passato sovietico e riabilitando i collaborazionisti delle Waffen SS
naziste, con tanto di manifestazioni pubbliche che, se si tenessero in
Italia o in Germania, desterebbero scandalo. Sempre in Lettonia, al pari
della Polonia, sono stati banditi i simboli comunisti. Questa politica
di vero apartheid e le costanti discriminazioni hanno portato alcuni
russi ad emigrare: in 23 anni i russi residenti in Lettonia sono
diminuiti dal 36% a meno del 30%, in Estonia sono passati dal 30% al
26%.
Il vertice NATO di settembre in cui è
stata delineata una nuova strategia di assalto alla Russia prevede che
dall’anno prossimo verranno dislocate nuove basi nei tre Paesi Baltici.
Il primo ministro lituano Dalia Grybauskaite ha chiamato la Russia uno
“Stato terrorista”. La russofobia è stata anche uno dei principali
motori dell’ampia sovversione occidentale promossa in Ucraina. Le nuove
autorità di Kiev uscite dalla rivolta (in realtà un colpo di Stato
eterodiretto) di Maidan si stavano apprestando ad attuare una politica
di apartheid e di repressione anti-russa in Crimea e nelle regioni
orientali: direttamente minacciato, il popolo della Crimea non ha
esitato a scegliere a larga maggioranza, con un referendum, di ritornare
nella madrepatria russa, mentre il Donbass, con le due Repubbliche
Popolari di Donetsk e Lugansk sta attualmente fronteggiando l’esercito
di Kiev che si è reso responsabile di massicci bombardamenti e stragi.
Nel maggio scorso si era già consumato un vero e proprio pogrom di
militanti e cittadini filo-russi e di organizzazioni di sinistra che
sono stati bruciati vivi nella casa del sindacato a Odessa dai gruppi
neo-nazisti che spalleggiano il nuovo corso di Maidan con la complicità
delle forze dell’ordine.
La strategia della NATO e dell’UE in
Europa centro-orientale è quindi quella di impedire che la Russia possa
ricompattare intorno a sé non solo i territori storicamente russi ma
anche Paesi storicamente e vicini culturalmente (la Serbia). Le
negligenze europee di fronte al progetto del gasdotto del South Stream,
che doveva rifornire Bulgaria, Serbia, Ungheria, Austria e Italia, sono
l’ennesima dimostrazione dell’atteggiamento dei governi europei, tanto
che la Russia, alla fine, ha deciso di annullare il progetto. Gli
oligarchi di Bruxelles, di concerto con quelli di Washington, vogliono
virtualmente troncare i rapporti con una Russia che evidentemente non è
più il debole (e docile) Paese che Putin aveva ereditato nel 2000 da
Gorbaciov ed Eltsin. Bassa propaganda da guerra fredda e russofobia,
però, non potranno facilmente scalfire i profondi legami culturali, non
solo economici, che i popoli dell’Europa occidentale e orientale hanno
con la Russia.
Ne è testimonianza un piccolo
avvenimento non certo fondamentale per gli equilibri mondiali ma
comunque dall’alto valore simbolico: la Russia, di fronte alle
difficoltà economiche di Parigi, si è offerta di comprare il
tradizionale albero di Natale di 25 metri da mettere sul sagrato della
cattedrale di Notre Dame. Come ha detto l’ambasciatore russo in Francia,
inaugurando l’albero, “con questo gesto vogliamo mostrare che
nonostante gli sforzi intrapresi per isolare la Russia, l’amicizia tra i
nostri due Paesi è così forte e profonda che nessun gioco politico può
distruggerla”.
Giulio Zotta
Fonte: Stato e Potenza
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