martedì 14 ottobre 2014

Il ritorno del “politico” e il concetto di Democrazia Sovrana nella Federazione Russa

di Alfonso Piscitelli - 14/10/2014 Fonte: Millennium



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La dissoluzione dell’URSS e la nuova Costituzione del 1993
La dissoluzione dell’Unione Sovietica non è stato un evento storico da relegare esclusivamente negli annali della geopolitica, ma un evento di portata epocale che ha avuto anche notevoli ripercussioni sul piano interno.
Nel dicembre nel 1991, il giorno 8, le tre Repubbliche slave – Russia, Bielorussia e Ucraina – si ritrovano a Belovezkaja Pušča, nei pressi di Brest, Bielorussia, per operare una dissoluzione guidata dell’Unione Sovietica nata con il trattato costituzionale del 1922. Infatti, nel successivo preambolo dell’Accordo di Minsk, capitale della Bielorussia, i firmatari dichiarano che “l’URSS quale soggetto del diritto internazionale cessa definitivamente di esistere.”
Il processo di dissoluzione definitiva dell’URSS si conclude con la Dichiarazione di Alma Ata (Kazakistan) del 21 dicembre del 1991. L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche perde la soggettività giuridica di diritto internazionale e si apre un lungo e complesso processo di ingegneria istituzionale per definire il nuovo assetto amministrativo della nascente Federazione Russa.
In verità, il processo teso a rimodellare l’assetto istituzionale della Russia sulla base dei principi dellaperestrojka (ristrutturazione) e della glasnost’ (trasparenza) prende inizio già nel dicembre del 1988 (terzo anno dell’era Gorbačëv). La Costituzione dell’URSS del 1978 viene implementata con la reintroduzione del Congresso dei deputati popolari, un organo assembleare che si affianca al complesso dei Soviet dell’Unione Sovietica. Inoltre, Gorbačëv propone l’introduzione di una nuova figura di rilevanza costituzionale, il Presidente del Soviet Supremo. Formalmente, la nuova figura istituzionale non possiede competenze di ordine legislativo o esecutivo, ma si limita a poteri di indirizzo e nomina di alti funzionari pubblici. Tecnicamente, si tratta del primo passo verso la svolta presidenziale attuata definitivamente nel giugno del 1991.
La seconda fase della riforma costituzionale intrapresa da Gorbačëv nel marzo del 1990 porta all’introduzione del Presidente dell’URSS, una figura istituzionale destinata a rappresentare l’unità dell’Unione Sovietica e ad assicurare il collegamento con  le istanze del Soviet Supremo. Mikhail Gorbačëv è stato il primo e l’ultimo a ricoprire tale carica, perché il colpo di stato dell’agosto del 1991 organizzato dagli apparati militari del KGB porta alla destituzione dello stesso Segretario del PCUS e Presidente dell’URSS. Tuttavia, al di là della cronaca degli eventi politico – istituzionali che accelerano e favoriscono l’implosione dell’Unione Sovietica, è importante cogliere il significato giuridico di questa lunga fase di transizione che si conclude all’alba degli anni 2000. In verità, l’introduzione della nuova figura istituzionale è il sintomo di un nuovo rapporto tra l’assemblea dei Soviet e il nuovo Presidente. L’assemblea popolare resta titolare dei classici poteri legislativi e di controllo, mentre al nuovo Presidente vengono attribuite funzioni essenzialmente amministrative, oltre alla possibilità di emanare ukaz (editti con efficacia di legge) nei casi di urgenza o vuoto normativo. Le riforme istituzionali iniziate nel dicembre del 1988 seguono le sorte dei grandi avvenimenti politici che si profilano all’orizzonte. Infatti, i cambiamenti istituzionali si susseguono incessantemente fino al dicembre del 1993, l’anno in cui viene adottata la nuoca Costituzione della Federazione Russa. Dopo l’introduzione del Presidente dell’URSS nel marzo del 1990, appare una nuova figura destinata a sconvolgere definitivamente gli equilibri istituzionali dell’Unione Sovietica. Infatti, con il referendum del marzo 1991 sul mantenimento dell’integrità politica e territoriale dell’URSS, i cittadini vengono chiamati ad esprimersi sulla possibilità di introdurre nella Costituzione un Presidente della Russia eletto direttamente dal popolo. I cittadini eleggono il nuovo Presidente della Repubblica di Russia il 12 giugno 1991 nella persona di Boris Eltsin.
La nuova figura istituzionale entra subito in rotta di collisione con gli altri poteri dell’Unione: il Congresso dei deputati popolari, il Soviet Supremo e il Presidente dell’URSS. In tal senso, il conflitto istituzionale diviene particolarmente accesso tra Presidente della Repubblica di Russia e assemblee parlamentari. Il motivo di tale conflitto deve essere ricercato nella possibilità, da parte del Soviet Supremo, di annullare gliukaz presidenziali e di porre il diritto di veto, con la maggioranza assoluta dei componenti del Congresso, alle leggi di iniziativa presidenziale.
Lo scontro istituzionale tra Presidente e assemblea parlamentare si trasforma in una vera e propria paralisi della politica a vantaggio di una potente oligarchia economica che si appresta ad assumere il controllo diretto dello Stato – apparato. Infatti, negli anni 1992 – 1996 il Presidente Boris Eltsin adotta misure radicali di privatizzazione di interi settori del complesso industriale della Russia. In particolare, le operazioni di privatizzazione radicale dell’apparato industriale russo portano alla nascita di una potente élite (gli oligarchi) capace di condizionare le decisioni politiche fino all’elezione di Vladimir Putin, nel marzo del 2000. La strada seguita per la privatizzazione di interi settori dell’industria russa destinata alla produzione e commercializzazione di idrocarburi è delle più dirompenti degli anni ’90. Boris Eltsin, su consiglio degli esperti del FMI, decide di distribuire a prezzo simbolico le azioni dei colossi industriali ed energetici più importanti della Russia ai cittadini per spingere questi alla successiva vendita delle azioni ai nascenti fondi di investimento in strumenti mobiliari. Le conseguenze devastanti di una simile linea di politica economica non tardano ad arrivare: i fondi di investimento riescono in breve tempo a raccogliere tutte le azioni in possesso dei cittadini e, nello stesso tempo, i dirigenti delle fabbriche raccolgono tutti gli strumenti di partecipazione azionaria. Ancora, nel 1994 vengono vendute azioni di fondamentali imprese strategiche attraverso un anomalo programma di “prestiti contro azioni.” In sostanza, i fondi di investimento erogano prestiti allo Stato e quest’ultimo concede le azioni a titolo di pegno. I prestiti sono così alti che lo Stato non riesce a rimborsare il capitale entro ristretti limiti di tempo con la conseguenza di perdere definitivamente il controllo dell’apparato produttivo della Russia. I proprietari delle più importanti imprese rientrati nel mercato degli idrocarburi assumono non solo il controllo economico della Russia, ma condizionano ogni segmento istituzionale. Oltre alla privatizzazione dell’apparato industriale, Eltsin intraprende una robusta fase di liberalizzazione dei prezzi ed eliminazione graduale di ogni intervento di sostegno sociale che gettano la Russia in una profonda fase di inflazione, recessione e aumento della povertà. Nel 1998, infatti, il rublo si deprezza in maniera vertiginosa e la percentuale di poveri oscilla tra il 20 e il 40% della popolazione.
Il Congresso dei deputati popolari tende di arginare in ogni modo le iniziative di Boris Eltsin, ma una serie incessante di ukaz presidenziali ridisegna l’assetto di politico – economico della Federazione Russa. Nel marzo del 1993, per superare lo stallo istituzionale conseguente alle disastrose politiche liberiste attuate unilateralmente da Eltsin, i cittadini vengono chiamati a pronunciarsi su quattro quesiti: 1) fiducia al Presidente; 2) politica economica; 3) elezione anticipata del Presidente; 4) anticipazione delle elezioni parlamentari. I primi due quesiti raggiungono la maggioranza dei votanti richiesta per la validità del referendum, mentre le altre due proposte non raggiungono il quorum. Nonostante la dubbia validità del referendum, Eltsin incarica una apposita Commissione di lavoro con il compito di scrivere una nuova Costituzione. Le frizioni istituzionali divengono presto ingestibili con i canali classici della politica e Boris Eltsin interviene con l’editto n. 1400 per sospendere definitivamente le assemblee parlamentari e avocare a sé i poteri legislativi in attesa del vaglio della nuova Costituzione.
Le assemblee parlamentari decidono di continuare ad oltranza la loro funzione e, con il parere della Corte Costituzionale, decidono di privare di efficacia l’editto n. 1400. Il Presidente Eltsin intima lo sgombero della sede del Parlamento, ma l’intimazione non produce effetto alcuno. Gli eventi precipitano tra la notte del 3 e 4 ottobre con la decisione di utilizzare i cannoni contro la sede dell’assemblea parlamentare, che Eltsin qualifica come risposta ad un “tentativo insurrezionale.”
La nuova Costituzione della Federazione Russa viene deliberata l’8 novembre 1993 e approvata il successivo 12 dicembre tramite un referendum al quale partecipa il 54% degli aventi diritto al voto. Nonostante i dubbi delle cancellerie internazionali sulla correttezza del referendum, il testo della nuova Costituzione viene confermato da circa il 58% dei votanti.
Il bilancio della prima (1991 – 1996) e della seconda (1996 – 1999) presidenza Eltsin è stato disastroso sotto molteplici punti di vista. Primo fra tutti, la debolezza politica interna e la conseguente irrilevanza sullo scacchiere internazionale (accettazione pura e semplice dei desiderata di Washington sull’allargamento ad est della NATO). La dissoluzione dell’Unione Sovietica coincide con la disgregazione dello Stato – apparato e la conseguente anarchia politico – economica. Infatti, oltre alle disastrose politiche liberiste che gettano la Russia in un vortice di recessione e inflazione incontrollata, la presidenza Eltsin porta alla scollamento tra il potere centrale e quello periferico. Nonostante il recupero di sovranità verso il centro della nuova Costituzione del 1993, le concessioni di Eltsin ai soggetti federati ( in particolare alle Repubbliche autonome) che compongono la struttura amministrativa della Russia determinano l’inefficacia dei provvedimenti normativi dell’apparato centrale e finiscono col disintegrare anche le forti prerogative presidenziali riconosciute dal nuovo assetto costituzionale (artt. 80 e ss. della Costituzione). I vari soggetti federati impongono a Eltsin sempre nuove concessioni di sovranità sotto la spinta dei vari gruppi di potere locali. Infatti, tra il 1994 e il 1998, vengono firmati da Eltsin una serie incessante di trattati bilaterali che aumentano pericolosamente i poteri dei vari soggetti federati. La seconda presidenza Eltsin (1996 – 1999) si conclude nella totale anarchia politica, economica e sociale. I vertici dello Stato sono sotto il controllo di potenti organizzazioni finanziarie e la Russia rischia di scivolare verso un baratro di corruzione e potere criminale. Infatti, come scrivono chiaramente Pina Cusano e Piero Innocenti ne “Le organizzazioni criminali del mondo” (Editori Riuniti 1996), “man mano che la politica e l’economia del colosso ex sovietico si andavano rivoluzionando in senso liberistico, generando sempre più profondi squilibri sociali (con differenza tra ricchi e poveri a livello da terzo mondo), le organizzazioni si rafforzavano, cercando di condizionare il potere politico. Il passaggio all’economia di mercato, avvenuto senza regole e possibilità di controllo, ha di fatto aperto a gruppi di malviventi senza scrupoli, ma con grandi capitali, la possibilità di dominare i settori dell’economia e della finanza, nonché, per altri versi, quello della politica.”
La fine della presidenza Eltsin presenta spiccate analogie con il Periodo dei Torbidi (1584 – 1613), la fase della storia russa conseguente alla morte di Ivan il Terribile che vede alternarsi Boris Godunov e una serie di falsi pretendenti al Trono ( i falsi Dimitri, dal nome del figlio illegittimo di Ivan IV) sobillati dalla Polonia e dalla Svezia. Il Periodo dei Torbidi si conclude con l’elezione al Trono di Zar di Michele Romanov nel 1613, lo Zar che libera la Russia dalle ingerenze polacche e restaura l’ordine dopo una convulsa fase di anarchia militare ( grazie all’azione dell’esercito popolare guidato da Dimitri Pozharskij, un principe che raccoglie subito un vasto consenso tra tutti gli strati sociali della popolazione).
Analogamente al Periodo dei Torbidi, tra il marzo 1998 e l’agosto 1999, si susseguono alla guida del Governo della Federazione Russa quadro diversi presidenti del Consiglio: Cernomyrdin, Kirienko, Primakov e Stepasin. Infatti, dopo il lungo mandato di Cernomyrdin (1992 – 1998), il Presidente Eltsin non riesce più a controllare il caos istituzionale generato dalle sue disastrose scelte politiche e nomina il giovane Vladimir Putin nell’agosto del 1999. Il 31 dicembre dello stesso anno, Eltsin decide di dimettersi e Putin diviene Presidente ad interim, in regola con quanto prescrive l’articolo 92 comma 3 della Costituzione.

La presidenza di Vladimir Putin e la ricostruzione dello Stato.
Vladimir Putin viene confermato come Presidente della Federazione Russa nel marzo del 2000 con il 53% dei voti. Nelle elezioni per la Duma del 1999, viene formato il partito Unità che ha lo scopo di sostenere l’operato di Putin nel Parlamento russo. Il partito raggiunge il 23% dei voti e trova il sostegno di ulteriori 93 deputati indipendenti per l’azione politica del nuovo Presidente. Nel 2001, invece, Unità si fonde con Patria – Tutta la Russia, il partito formato dal sindaco di Mosca Luzkov e dal vecchio Ministro degli Esteri Primakov (il nuovo nome è Russia Unita, che nel 2003 ottiene il 35% dei voti conquistando 220 seggi). Vladimir Putin, già all’inizio delle prime apparizioni pubbliche, si presenta come un giovane politico pragmatico ed esperto dei meccanismi istituzionali. L’esperienza come ufficiale del KGB nella Germania dell’Est, il ruolo di capo del FSB (il nuovo servizio segreto russo),  Presidente del Consiglio di Sicurezza e assistente del Sindaco Sobchak di San Pietroburgo gli conferiscono lo status ideale per rimettere ordine in Russia. I primi due mandati presidenziali di Putin (2000 – 2004 e 2004 – 2008) hanno impresso un cambiamento decisivo al complesso processo di transizione dall’Unione Sovietica alla Federazione Russa (1991 – 1999). Infatti, ad una fase di totale disgregazione politica, economica e militare è seguita una fase di ricostruzione all’insegna del pragmatismo e del decisionismo. Il perno dell’azione politica di Vladimir Putin può essere compendiato in questi termini: ricostruzione delle strutture dello Stato (recupero della verticale esecutiva tra centro e periferia), capacità di controllo dei settori nevralgici dell’economia e restituzione alla Federazione Russia dello status di grande potenza. Il paradigma politico di riferimento di Vladimir Putin è l’integrità territoriale della Russia e il controllo delle sue risorse, condizioni imprescindibili per ricostruire le fondamenta dello Stato e ridare dignità al popolo nella sua accezione di narod (identità, cultura popolare).
Il primo discorso di Vladimir Putin al Parlamento (maggio 2000), “La Russia al passare del millennio,” non è una semplice dichiarazione di intenti, ma un’autentica piattaforma programmatica che il Presidente considera inderogabile. Il pluralismo e l’economia del mercato, si legge nel discorso di Putin, non possono disintegrare le prerogative dello Stato nei confronti della comunità nel suo complesso. Ancora, nel messaggio alle Camere dell’8 luglio 2000, Putin afferma “che l’incertezza del potere e la debolezza dello Stato vanificano le riforme economiche e le altre riforme. Il potere ha l’obbligo di basarsi sulla legge e su un’unica verticale esecutiva in conformità alla legge.” Secondo Putin, infatti, la sovrapposizione tra diversi livelli decisionali e l’assenza di una verticale esecutiva che assicuri coordinamento ed efficacia alle leggi è l’anticamera dell’anarchia politica ed economica. Gli organi federali, quindi, hanno il compito di attuare le decisioni dello Stato centrale per ottenere obiettivi unitari in termini di politica interna e strategia di politica estera.
Le direttive di Putin per la riforma dell’amministrazione dello Stato sono due: centralizzazione dei poteri esecutivi e rispetto della normativa di fonte primaria (ukaz e leggi federali). Il Presidente Putin interviene su tre fronti: riforma amministrativa, politica ed economia. Sul piano della riforma amministrativa, con l’editto del 13 maggio 2000, Putin istituisce sette plenipotenziari dipendenti dall’amministrazione presidenziale nei vari distretti di cui si compone l’amministrazione russa. I rappresentanti dell’amministrazione presidenziale hanno il compito di vigilare sul rispetto delle leggi federali da parte dei vari soggetti federati di cui si compone la Federazione Russa ( 49 Regioni, 21 Repubbliche, 10 distretti autonomi e 6 circondari). I plenipotenziari nominati  possono sospendere gli atti normativi dei vari soggetti federati e proporre al Presidente la loro destituzione. Inoltre, una legge del 5 agosto 2000 demanda all’esecutivo dei soggetti federati il compito di nominare il rappresentante presso l’Assemblea Federale o Consiglio della Federazione (la seconda Camera prevista dalla Costituzione del 1993,  composta da 176 rappresentanti delle varie entità territoriali) per evitare che la rappresentanza spetti direttamente al capo dell’esecutivo. In questo modo, i titolari del potere esecutivo delle varie entità territoriali non acquisiscono l’immunità parlamentare e possono essere perseguiti senza alcuna autorizzazione. Le leggi in questione, infatti, si pongono l’obiettivo di spezzare il legame tra i governatori regionali e le varie clientele mafiose che si sono originate con le liberalizzazioni dell’era Eltsin. Le riforme in questione, quindi, hanno implementato la cosiddetta “verticale esecutiva,” la necessità che il potere centrale ponga le basi normative per l’assetto politico, amministrativo ed economico della Federazione Russa. Il secondo mandato di Putin (eletto nel 2004 con il 71% dei voti, rispetto al 53% dei voti raccolti nel 2000) si inaugura con la riforma politica: ridisegnare il quadro della rappresentanza partitica. I provvedimenti legislativi vanno nella direzione di una semplificazione del quadro politico: divieto di formare partiti etnici o religiosi, eliminazione dei partiti regionali e quorum del 7% per accedere alla Duma (la prima Camera prevista dalla Costituzione, composta da 450 membri). Le riforme economiche sono altrettanto imponenti rispetto a quelle amministrative e a quelle politiche. Dopo il condizionamento della politica operato dagli oligarchi con la presidenza di Eltsin (il cui secondo mandato viene garantito e finanziato da Chodorkovskij, Gusinskij e Berezovsvskij), Putin riafferma l’autorità dello Stato sulle risorse energetiche della Russia. Durante l’era Eltsin il potere economico degli oligarchi risulta superiore a quello dello Stato e, quindi, questi ultimi divengono anelli fondamentali per la gestione della prassi politica. La presidenza Putin rompe le collusioni tra potere economico e azione politica: l’autorità dello Stato non può essere oggetto di negoziati. I primi due oligarchi ad essere colpiti da provvedimenti giudiziari sono Gusinskij e Berezevoskij, rispettivamente titolari del gruppo Media – Most (controllo di influenti canali televisivi) e dei giornali Kommersant e Nezavissimaya Gazeta. Gusinskij viene accusato di evasione fiscale e mancato pagamento di un debito di 380 milioni di dollari alla Gazprom, il colosso energetico della Russia. Berezevoskij viene accusato di gestione impropria di alcuni fondi stranieri collegati alla Aeroflot e di un debito di svariati milioni di dollari nei confronti della Vneshekonombank e della Luk Oil. Sul fronte della politica energetica, negli anni 1999 – 2004, Vladimir Putin promuove il controllo sull’industria pesante e sulla quella connessa agli idrocarburi con la riacquisizione di importanti quote societarie della Gazprom e della Luk Oil. In particolare, viene posta sotto inchiesta per la Sibur (vecchia società controllata dalla Gazprom) per irregolarità di bilancio e fiscali. L’inchiesta si conclude con il fallimento della società e l’arresto di tre alti funzionari per falsità in documenti contabili. Tuttavia, l’offensiva più forte nei confronti degli oligarchi è quella condotta nei confronti di Chodorkovskij, il proprietario del colosso petrolifero Yukos e della Banca Menatep. Chodorkovskij viene accusato di varie reati: evasione fiscale, mancato rispetto delle sentenze, falsificazioni di documenti, corruzione e furto. Inoltre, nella campagna elettorale per le lezioni parlamentari del 2003, Chodorkovskij inizia a finanziare partiti politici di area liberale come Yabloco e Sps fortemente legati all’élite neoconservatrice americana. Lo scopo è quello di condizionare il processo politico e concludere un discutibile accordo con la Exxon – Mobil, la principale società petrolifera degli Stati Uniti. L’accordo ha la finalità di sottrarre il controllo delle risorse petrolifere alla Federazione Russa e fermare gli ambiziosi programmi di crescita economica fissati con la prima presidenza Putin. Dopo l’arresto e la condanna di Chodorkhovskij (graziato da Putin nel marzo 2014 e riparato in Svizzera), la Yukos viene smembrata e acquisita dalla Gazprom. Lo Stato non può abdicare alla propria funzione di guida e sacrificare gli interessi della comunità a vantaggio di una ristretta élite nata dall’oscuro clima di disgregazione sociale ed economica dell’era Eltsin. I primi due mandati di Putin ricostruiscono lo Stato e ridisegnano la piattaforma geopolitica della Federazione Russa. Dimitri Medvedev, successore di Putin nel 2008 (la Costituzione vieta più di due mandati consecutivi), si pone sulla stessa scia del predecessore e implementa i nuovi programmi di politica economica e sociale grazie all’ottimale gestione delle risorse energetiche di cui dispone la Russia. I risultati del tandem Putin – Medvedev (Putin viene rieletto per un terzo mandato nel marzo 2012) non tardano ad arrivare: il Pil pro capite, tra il 1999 e il 2007, passa da 4.200 dollari a 12.100 dollari per raggiungere i 15.200 del 2009; nel 2008 la fascia di povertà della popolazione passa dal 23% all’11% tra il 2005 e il 2008; l’inflazione scende dall’86% all’11%. L’azione di ricostruzione politica ed economica del colosso russo dopo gli anni bui della presidenza Eltsin è stata possibile solo grazie alla tenacia degli uomini gravitanti intorno alla cerchia di Vladimir Putin, i cosiddetti siloviki (uomini della forza). Si tratta, in particolare, del gruppo di potere gravitante nell’orbita di Andropov (vecchio segretario del KGB) e dei giuristi di San Pietroburgo vicini al Sindaco Sobchak. Il compito di Vladimir Putin, in sostanza, è quello di mediare tra le varie componenti delle due squadre e assicurare l’equilibrio necessario per continuare a rafforzare l’autorità dello Stato sul piano interno. In questo senso, una forte politica sul piano interno è condizione imprescindibile per consolidare lo status di grande potenza che appartiene di diritto alla Federazione Russa.

Il concetto di democrazia sovrana e il ritorno del “Politico”
Solitamente, quando si parla della morfologia del potere politico russo si utilizza il concetto di “democrazia sovrana.” Apparentemente, la categoria in commento non genera particolari equivoci interpretativi, ma se analizzata compiutamente mostra la sua forte carica simbolica. Tecnicamente, una democrazia non può non essere sovrana perché il potere esercitato dal popolo e in nome del popolo deve essere autentico, altrimenti non si ha democrazia, ma oligarchia eterodiretta. Infatti, questo tipo di analisi concettuale non è molto lontana dalla realtà e si inserisce in contesto storico – politico determinato. L’origine della categoria concettuale di “democrazia sovrana” deve essere ricercata nell’analisi compiuta da Vladislav Surkov, collaboratore dell’amministrazione presidenziale di Putin, all’indomani della cosiddetta “rivoluzione arancione” del 2004 – 2005 in Ucraina. Proprio per commentare gli eventi in parola, Surkov parla di “una combinazione pericolosa tra una pressione populista dal basso e una pressione internazionale dall’alto.” Fondamentalmente, Surkov allude al ruolo determinate giocato dalle varie ONG di Soros per condizionare profondamente l’evoluzione politica dell’Ucraina. In questo senso, la democrazia non è più espressione autentica del volere popolare e, quindi, non è sovrana perché eterodiretta dall’alto, da interessi geopolitici determinati. La riflessione di Surkov è degna di rilievo perché coglie con grande acutezza il senso della “rivolta colorata” per estromettere Leonid Kučma dal potere (rivolta che si conclude con l’elezione di Viktor Juščenko e la nomina a Primo Ministro di Julija Tymošenko). In questo senso, la riflessione di Surkov e Putin matura proprio intorno al ruolo che l’élite politica deve assumere nel processo politico che coinvolge l’intera nazione. Quello che occorre, seguendo l’analisi di Surkov, è una nazionalizzazione dell’élite politica per renderla rispondente alle reali necessità della comunità. L’élite politica, infatti, non può rispondere a interessi transnazionali perché in questo modo spezza il legame con il popolo e, nello stesso tempo, provoca una deviazione rispetto al destino naturale di una determinata comunità, che è sempre il prodotto di specifiche condizioni storiche, politiche e sociali. In altri termini, se la comunità risponde a interessi discordanti con le sue reali necessità devia dal suo Nomos, dalla sua autenticità. I provvedimenti riguardanti il settore energetico, il divieto per le ONG di ricevere finanziamenti non dichiarati dall’estero, la rottura della collusione tra finanza e politica rientrano appieno nel programma di nazionalizzazione dell’élite e di ricostruzione dell’autorità dello Stato. Nel principale lavoro teorico di Surkov, “la nazionalizzazione del futuro,” l’autore delinea con grande precisione le correnti ideologiche della Russia post – sovietica: I Liberali, l’intellighenzia economica legata alla tradizione del pensiero liberale di marca atlantista (Yabloko); I Rivoluzionari, gruppo all’interno del quale rientra l’arco nazionalista e comunista (Il KPRF di Zjuganov, il Partito Liberal – democratico di Žirinovskij); I Conservatori, gruppo nel quale rientra l’apparato amministrativo di Putin e che ha il compito di bilanciare “rivoluzione e conservazione,” ovvero riforma e tutela della Tradizione (Russia Unita).
L’operato del Presidente Vladimir Putin, infatti, si muove proprio all’insegna del mantenimento della continuità di potere e, nello stesso tempo, nella necessità di assicurare uno sviluppo economico – sociale ordinato. In questo senso, la profonda crisi dell’era Eltsin ha fatto sorgere nella Federazione Russa un nuovo arco di forze nazionali e patriottiche capaci di ridisegnare la politica interna e il ruolo della nazione sullo scacchiere della politica estera. Dopo la dissoluzione sociale, economica e politica delle riforme post – sovietiche, l’era Putin ha individuato la chiave di volta nel collante tra nazionalismo e patriottismo. Un nazionalismo depurato dalle tendenze sciovinistiche del panslavismo, un senso di orgoglio per la storia russa che diviene modello per ridisegnare il presente in continuità con la Tradizione. Emblematiche a questo riguardo le parole del defunto Patriarca Alessio II: “ Putin si pone il problema del prestigio della Russia. Desidera fare tutto il possibile affinchè il nostro paese sia considerato nel mondo, affinchè nessuno osi pulirsi le scarpe con il nostro paese. E’ una persona preparata” (Angelica Carpifave, Conversazioni con Alessio II, Ed. Mondadori). Vladimir Putin assume come paradigma della sua azione politica la riconciliazione nazionale, la necessità di legare armonicamente gli interessi della comunità per evitare spinte centrifughe. In questo senso, “democrazia sovrana” significa individuazione di una dinamica del potere in relazione alla specificità culturali di una determinata civiltà. Vladimir Putin coglie nel segno quando afferma che: “ L’esperienza degli anni novanta dimostra chiaramente che un mero esperimento derivato da modelli e metodi astratti che si possono leggere nei libri di testo stranieri non può garantire che il nostro paese compia un vero rinnovamento, al riparo da costi eccessivi. Nemmeno la riproduzione meccanica dell’esperienza di altri paesi garantisce il successo. […]Il futuro dipende dalla capacità di combinare i principi universali dell’economia di mercato e della democrazia con la realtà russa. Gli scienziati, gli analisti, gli esperti, i pubblici ufficiali, gli uomini politici e le organizzazioni sociali devono lavorare tenendo in mente questo obiettivo” (La Russia alla svolta del millennio, 31 dicembre 1999). Il senso della “democrazia sovrana” è quello di individuare la dinamica del potere politico nella specificità culturale della Russia, nella storia e nella sua Tradizione. In tal senso, l’azione politica non deve imitare modelli esteri e predeterminati, ma accompagnare l’evoluzione socio – economica nel rispetto del Nomos, dell’equilibrio e del bilanciamento di interessi. L’eminenza grigia del Cremlino, che risponde al nome di Vladislav Surkov (destituito dalla carica di capo dello staff presidenziale a fine 2011 e richiamato nel settembre 2013), insiste sulla necessità di prospettare una “visione del mondo” capace di fungere da paradigma del futuro politico della Russia. Secondo Surkov, infatti, se la Russia vuole perseguire uno sviluppo sociale ed economico nel rispetto della tradizione deve avere una “visione del mondo” che ne orienti il cammino nelle sfide del XXI secolo. In definitiva, seguendo l’analisi di Surkov, se l’Unione sovietica possiede il crisma della sovranità, ma non quello della democrazia, la Russia dell’era Eltsin possiede il crisma della democrazia, ma non quello della sovranità. La soluzione per la Russia post – sovietica va individuata nella necessità di bilanciare il requisito della sovranità con quello della democrazia: recupero del passato in chiave di esperienza e individuazione di una sintesi armonica tra due momenti della storia russa che sono parte integrante della sua evoluzione politica. La Russia deve costruire un sistema politico – economico capace di competere sulla scena internazionale, ma senza rinunciare alle proprie specificità culturali. La riconciliazione di questi due fondamentali momenti della storia russa (il comunismo reale e il passaggio alla democrazia rappresentativa) è una condizione imprescindibile per superare le contraddizioni del presente e stimolare una nuova passione comunitaria. In termini reali, questo significa che la Federazione Russa ha il diritto di rifiutare il modello atlantico di democrazia e trovare il proprio modello politico – economico nel rispetto della specificità della cultura russa. In questo senso, l’idea di “democrazia sovrana” serve a respingere le ingerenze occidentali (o comunque straniere), mentre l’idea di “ripresa economica” serve a spezzare il legame tra le forze economiche e gli interessi della comunità nazionale nel suo complesso. L’intuizione di Surkov, implementata dall’operato di Putin, ha avuto e continua ad avere un grande impatto nella realtà nazionale. In particolare, la categoria di “democrazia sovrana” ha permesso alla Russia di affermare un quadro di “valori forti,” ma nello stesso tempo ha garantito flessibilità e dinamicità alla politica sociale ed economica. Surkov e Putin ci forniscono una grande lezione di realismo politico, una lezione da cui imparare senza pregiudizi e apriorismi interpretativi. La riaffermazione delle “categorie del Politico” (il saggio di Carl Schmitt del 1932) non può prescindere dallo Stato, pena il dominio dell’economico e “dell’utile.” In questo senso, “il concetto di Stato presuppone quello di Politico,” ovvero uno Stato non diretto dalla politica è una oligarchia in preda alla logica del profitto.
Le lezioni che possiamo trarre dalla evoluzione storico – politica della Russia sono molte. Prima fra tutte, il recupero della storia e delle specificità nazionali. Senza la continuità del potere non esiste comunità che tenga, ma solo eterarchia.

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