La dissoluzione dell’URSS e la nuova Costituzione del 1993
La
dissoluzione dell’Unione Sovietica non è stato un evento storico da
relegare esclusivamente negli annali della geopolitica, ma un evento di
portata epocale che ha avuto anche notevoli ripercussioni sul piano
interno.
Nel
dicembre nel 1991, il giorno 8, le tre Repubbliche slave – Russia,
Bielorussia e Ucraina – si ritrovano a Belovezkaja Pušča, nei pressi di
Brest, Bielorussia, per operare una dissoluzione guidata dell’Unione
Sovietica nata con il trattato costituzionale del 1922. Infatti, nel
successivo preambolo dell’Accordo di Minsk, capitale della Bielorussia, i
firmatari dichiarano che “l’URSS quale soggetto del diritto
internazionale cessa definitivamente di esistere.”
Il
processo di dissoluzione definitiva dell’URSS si conclude con la
Dichiarazione di Alma Ata (Kazakistan) del 21 dicembre del 1991.
L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche perde la soggettività
giuridica di diritto internazionale e si apre un lungo e complesso
processo di ingegneria istituzionale per definire il nuovo assetto
amministrativo della nascente Federazione Russa.
In verità, il processo teso a rimodellare l’assetto istituzionale della Russia sulla base dei principi dellaperestrojka (ristrutturazione) e della glasnost’ (trasparenza)
prende inizio già nel dicembre del 1988 (terzo anno dell’era Gorbačëv).
La Costituzione dell’URSS del 1978 viene implementata con la
reintroduzione del Congresso dei deputati popolari, un organo
assembleare che si affianca al complesso dei Soviet dell’Unione
Sovietica. Inoltre, Gorbačëv propone l’introduzione di una nuova figura
di rilevanza costituzionale, il Presidente del Soviet Supremo.
Formalmente, la nuova figura istituzionale non possiede competenze di
ordine legislativo o esecutivo, ma si limita a poteri di indirizzo e
nomina di alti funzionari pubblici. Tecnicamente, si tratta del primo
passo verso la svolta presidenziale attuata definitivamente nel giugno
del 1991.
La
seconda fase della riforma costituzionale intrapresa da Gorbačëv nel
marzo del 1990 porta all’introduzione del Presidente dell’URSS, una
figura istituzionale destinata a rappresentare l’unità dell’Unione
Sovietica e ad assicurare il collegamento con le istanze del Soviet
Supremo. Mikhail Gorbačëv è stato il primo e l’ultimo a ricoprire tale
carica, perché il colpo di stato dell’agosto del 1991 organizzato dagli
apparati militari del KGB porta alla destituzione dello stesso
Segretario del PCUS e Presidente dell’URSS. Tuttavia, al di là della
cronaca degli eventi politico – istituzionali che accelerano e
favoriscono l’implosione dell’Unione Sovietica, è importante cogliere il
significato giuridico di questa lunga fase di transizione che si
conclude all’alba degli anni 2000. In verità, l’introduzione della nuova
figura istituzionale è il sintomo di un nuovo rapporto tra l’assemblea
dei Soviet e il nuovo Presidente. L’assemblea popolare resta titolare
dei classici poteri legislativi e di controllo, mentre al nuovo
Presidente vengono attribuite funzioni essenzialmente amministrative,
oltre alla possibilità di emanare ukaz (editti
con efficacia di legge) nei casi di urgenza o vuoto normativo. Le
riforme istituzionali iniziate nel dicembre del 1988 seguono le sorte
dei grandi avvenimenti politici che si profilano all’orizzonte. Infatti,
i cambiamenti istituzionali si susseguono incessantemente fino al
dicembre del 1993, l’anno in cui viene adottata la nuoca Costituzione
della Federazione Russa. Dopo l’introduzione del Presidente dell’URSS
nel marzo del 1990, appare una nuova figura destinata a sconvolgere
definitivamente gli equilibri istituzionali dell’Unione Sovietica.
Infatti, con il referendum del marzo 1991 sul mantenimento
dell’integrità politica e territoriale dell’URSS, i cittadini vengono
chiamati ad esprimersi sulla possibilità di introdurre nella
Costituzione un Presidente della Russia eletto direttamente dal popolo. I
cittadini eleggono il nuovo Presidente della Repubblica di Russia il 12
giugno 1991 nella persona di Boris Eltsin.
La
nuova figura istituzionale entra subito in rotta di collisione con gli
altri poteri dell’Unione: il Congresso dei deputati popolari, il Soviet
Supremo e il Presidente dell’URSS. In tal senso, il conflitto
istituzionale diviene particolarmente accesso tra Presidente della
Repubblica di Russia e assemblee parlamentari. Il motivo di tale
conflitto deve essere ricercato nella possibilità, da parte del Soviet
Supremo, di annullare gliukaz presidenziali
e di porre il diritto di veto, con la maggioranza assoluta dei
componenti del Congresso, alle leggi di iniziativa presidenziale.
Lo
scontro istituzionale tra Presidente e assemblea parlamentare si
trasforma in una vera e propria paralisi della politica a vantaggio di
una potente oligarchia economica che si appresta ad assumere il
controllo diretto dello Stato – apparato. Infatti, negli anni 1992 –
1996 il Presidente Boris Eltsin adotta misure radicali di
privatizzazione di interi settori del complesso industriale della
Russia. In particolare, le operazioni di privatizzazione radicale
dell’apparato industriale russo portano alla nascita di una potente
élite (gli oligarchi)
capace di condizionare le decisioni politiche fino all’elezione di
Vladimir Putin, nel marzo del 2000. La strada seguita per la
privatizzazione di interi settori dell’industria russa destinata alla
produzione e commercializzazione di idrocarburi è delle più dirompenti
degli anni ’90. Boris Eltsin, su consiglio degli esperti del FMI, decide
di distribuire a prezzo simbolico le azioni dei colossi industriali ed
energetici più importanti della Russia ai cittadini per spingere questi
alla successiva vendita delle azioni ai nascenti fondi di investimento
in strumenti mobiliari. Le conseguenze devastanti di una simile linea di
politica economica non tardano ad arrivare: i fondi di investimento
riescono in breve tempo a raccogliere tutte le azioni in possesso dei
cittadini e, nello stesso tempo, i dirigenti delle fabbriche raccolgono
tutti gli strumenti di partecipazione azionaria. Ancora, nel 1994
vengono vendute azioni di fondamentali imprese strategiche attraverso un
anomalo programma di “prestiti contro azioni.” In sostanza, i fondi di
investimento erogano prestiti allo Stato e quest’ultimo concede le
azioni a titolo di pegno. I prestiti sono così alti che lo Stato non
riesce a rimborsare il capitale entro ristretti limiti di tempo con la
conseguenza di perdere definitivamente il controllo dell’apparato
produttivo della Russia. I proprietari delle più importanti imprese
rientrati nel mercato degli idrocarburi assumono non solo il controllo
economico della Russia, ma condizionano ogni segmento istituzionale.
Oltre alla privatizzazione dell’apparato industriale, Eltsin intraprende
una robusta fase di liberalizzazione dei prezzi ed eliminazione
graduale di ogni intervento di sostegno sociale che gettano la Russia in
una profonda fase di inflazione, recessione e aumento della povertà.
Nel 1998, infatti, il rublo si deprezza in maniera vertiginosa e la
percentuale di poveri oscilla tra il 20 e il 40% della popolazione.
Il Congresso dei deputati popolari tende di arginare in ogni modo le iniziative di Boris Eltsin, ma una serie incessante di ukaz presidenziali
ridisegna l’assetto di politico – economico della Federazione Russa.
Nel marzo del 1993, per superare lo stallo istituzionale conseguente
alle disastrose politiche liberiste attuate unilateralmente da Eltsin, i
cittadini vengono chiamati a pronunciarsi su quattro quesiti: 1)
fiducia al Presidente; 2) politica economica; 3) elezione anticipata del
Presidente; 4) anticipazione delle elezioni parlamentari. I primi due
quesiti raggiungono la maggioranza dei votanti richiesta per la validità
del referendum, mentre le altre due proposte non raggiungono il quorum.
Nonostante la dubbia validità del referendum, Eltsin incarica una
apposita Commissione di lavoro con il compito di scrivere una nuova
Costituzione. Le frizioni istituzionali divengono presto ingestibili con
i canali classici della politica e Boris Eltsin interviene con l’editto
n. 1400 per sospendere definitivamente le assemblee parlamentari e
avocare a sé i poteri legislativi in attesa del vaglio della nuova
Costituzione.
Le
assemblee parlamentari decidono di continuare ad oltranza la loro
funzione e, con il parere della Corte Costituzionale, decidono di
privare di efficacia l’editto n. 1400. Il Presidente Eltsin intima lo
sgombero della sede del Parlamento, ma l’intimazione non produce effetto
alcuno. Gli eventi precipitano tra la notte del 3 e 4 ottobre con la
decisione di utilizzare i cannoni contro la sede dell’assemblea
parlamentare, che Eltsin qualifica come risposta ad un “tentativo
insurrezionale.”
La
nuova Costituzione della Federazione Russa viene deliberata l’8
novembre 1993 e approvata il successivo 12 dicembre tramite un
referendum al quale partecipa il 54% degli aventi diritto al voto.
Nonostante i dubbi delle cancellerie internazionali sulla correttezza
del referendum, il testo della nuova Costituzione viene confermato da
circa il 58% dei votanti.
Il
bilancio della prima (1991 – 1996) e della seconda (1996 – 1999)
presidenza Eltsin è stato disastroso sotto molteplici punti di vista.
Primo fra tutti, la debolezza politica interna e la conseguente
irrilevanza sullo scacchiere internazionale (accettazione pura e
semplice dei desiderata di
Washington sull’allargamento ad est della NATO). La dissoluzione
dell’Unione Sovietica coincide con la disgregazione dello Stato –
apparato e la conseguente anarchia politico – economica. Infatti, oltre
alle disastrose politiche liberiste che gettano la Russia in un vortice
di recessione e inflazione incontrollata, la presidenza Eltsin porta
alla scollamento tra il potere centrale e quello periferico. Nonostante
il recupero di sovranità verso il centro della nuova Costituzione del
1993, le concessioni di Eltsin ai soggetti federati ( in particolare
alle Repubbliche autonome) che compongono la struttura amministrativa
della Russia determinano l’inefficacia dei provvedimenti normativi
dell’apparato centrale e finiscono col disintegrare anche le forti
prerogative presidenziali riconosciute dal nuovo assetto costituzionale
(artt. 80 e ss. della Costituzione). I vari soggetti federati impongono a
Eltsin sempre nuove concessioni di sovranità sotto la spinta dei vari
gruppi di potere locali. Infatti, tra il 1994 e il 1998, vengono firmati
da Eltsin una serie incessante di trattati bilaterali che aumentano
pericolosamente i poteri dei vari soggetti federati. La seconda
presidenza Eltsin (1996 – 1999) si conclude nella totale anarchia
politica, economica e sociale. I vertici dello Stato sono sotto il
controllo di potenti organizzazioni finanziarie e la Russia rischia di
scivolare verso un baratro di corruzione e potere criminale. Infatti,
come scrivono chiaramente Pina Cusano e Piero Innocenti ne “Le
organizzazioni criminali del mondo” (Editori Riuniti 1996), “man mano
che la politica e l’economia del colosso ex sovietico si andavano
rivoluzionando in senso liberistico, generando sempre più profondi
squilibri sociali (con differenza tra ricchi e poveri a livello da terzo
mondo), le organizzazioni si rafforzavano, cercando di condizionare il
potere politico. Il passaggio all’economia di mercato, avvenuto senza
regole e possibilità di controllo, ha di fatto aperto a gruppi di
malviventi senza scrupoli, ma con grandi capitali, la possibilità di
dominare i settori dell’economia e della finanza, nonché, per altri
versi, quello della politica.”
La
fine della presidenza Eltsin presenta spiccate analogie con il Periodo
dei Torbidi (1584 – 1613), la fase della storia russa conseguente alla
morte di Ivan il Terribile che vede alternarsi Boris Godunov e una serie
di falsi pretendenti al Trono ( i falsi Dimitri,
dal nome del figlio illegittimo di Ivan IV) sobillati dalla Polonia e
dalla Svezia. Il Periodo dei Torbidi si conclude con l’elezione al Trono
di Zar di Michele Romanov nel 1613, lo Zar che libera la Russia dalle
ingerenze polacche e restaura l’ordine dopo una convulsa fase di
anarchia militare ( grazie all’azione dell’esercito popolare guidato da
Dimitri Pozharskij, un principe che raccoglie subito un vasto consenso
tra tutti gli strati sociali della popolazione).
Analogamente
al Periodo dei Torbidi, tra il marzo 1998 e l’agosto 1999, si
susseguono alla guida del Governo della Federazione Russa quadro diversi
presidenti del Consiglio: Cernomyrdin, Kirienko, Primakov e Stepasin.
Infatti, dopo il lungo mandato di Cernomyrdin (1992 – 1998), il
Presidente Eltsin non riesce più a controllare il caos istituzionale
generato dalle sue disastrose scelte politiche e nomina il giovane
Vladimir Putin nell’agosto del 1999. Il 31 dicembre dello stesso anno,
Eltsin decide di dimettersi e Putin diviene Presidente ad interim, in regola con quanto prescrive l’articolo 92 comma 3 della Costituzione.
La presidenza di Vladimir Putin e la ricostruzione dello Stato.
Vladimir
Putin viene confermato come Presidente della Federazione Russa nel
marzo del 2000 con il 53% dei voti. Nelle elezioni per la Duma del 1999,
viene formato il partito Unità che ha lo scopo di sostenere l’operato
di Putin nel Parlamento russo. Il partito raggiunge il 23% dei voti e
trova il sostegno di ulteriori 93 deputati indipendenti per l’azione
politica del nuovo Presidente. Nel 2001, invece, Unità si fonde con
Patria – Tutta la Russia, il partito formato dal sindaco di Mosca Luzkov
e dal vecchio Ministro degli Esteri Primakov (il nuovo nome è Russia
Unita, che nel 2003 ottiene il 35% dei voti conquistando 220 seggi).
Vladimir Putin, già all’inizio delle prime apparizioni pubbliche, si
presenta come un giovane politico pragmatico ed esperto dei meccanismi
istituzionali. L’esperienza come ufficiale del KGB nella Germania
dell’Est, il ruolo di capo del FSB (il nuovo servizio segreto russo),
Presidente del Consiglio di Sicurezza e assistente del Sindaco Sobchak
di San Pietroburgo gli conferiscono lo status ideale per rimettere
ordine in Russia. I primi due mandati presidenziali di Putin (2000 –
2004 e 2004 – 2008) hanno impresso un cambiamento decisivo al complesso
processo di transizione dall’Unione Sovietica alla Federazione Russa
(1991 – 1999). Infatti, ad una fase di totale disgregazione politica,
economica e militare è seguita una fase di ricostruzione all’insegna del
pragmatismo e del decisionismo. Il perno dell’azione politica di
Vladimir Putin può essere compendiato in questi termini: ricostruzione
delle strutture dello Stato (recupero della verticale esecutiva tra
centro e periferia), capacità di controllo dei settori nevralgici
dell’economia e restituzione alla Federazione Russia dello status di
grande potenza. Il paradigma politico di riferimento di Vladimir Putin è
l’integrità territoriale della Russia e il controllo delle sue risorse,
condizioni imprescindibili per ricostruire le fondamenta dello Stato e
ridare dignità al popolo nella sua accezione di narod (identità, cultura popolare).
Il
primo discorso di Vladimir Putin al Parlamento (maggio 2000), “La
Russia al passare del millennio,” non è una semplice dichiarazione di
intenti, ma un’autentica piattaforma programmatica che il Presidente
considera inderogabile. Il pluralismo e l’economia del mercato, si legge
nel discorso di Putin, non possono disintegrare le prerogative dello
Stato nei confronti della comunità nel suo complesso. Ancora, nel
messaggio alle Camere dell’8 luglio 2000, Putin afferma “che
l’incertezza del potere e la debolezza dello Stato vanificano le riforme
economiche e le altre riforme. Il potere ha l’obbligo di basarsi sulla
legge e su un’unica verticale esecutiva in conformità alla legge.”
Secondo Putin, infatti, la sovrapposizione tra diversi livelli
decisionali e l’assenza di una verticale esecutiva che assicuri
coordinamento ed efficacia alle leggi è l’anticamera dell’anarchia
politica ed economica. Gli organi federali, quindi, hanno il compito di
attuare le decisioni dello Stato centrale per ottenere obiettivi unitari
in termini di politica interna e strategia di politica estera.
Le
direttive di Putin per la riforma dell’amministrazione dello Stato sono
due: centralizzazione dei poteri esecutivi e rispetto della normativa
di fonte primaria (ukaz e
leggi federali). Il Presidente Putin interviene su tre fronti: riforma
amministrativa, politica ed economia. Sul piano della riforma
amministrativa, con l’editto del 13 maggio 2000, Putin istituisce sette
plenipotenziari dipendenti dall’amministrazione presidenziale nei vari
distretti di cui si compone l’amministrazione russa. I rappresentanti
dell’amministrazione presidenziale hanno il compito di vigilare sul
rispetto delle leggi federali da parte dei vari soggetti federati di cui
si compone la Federazione Russa ( 49 Regioni, 21 Repubbliche, 10
distretti autonomi e 6 circondari). I plenipotenziari nominati possono
sospendere gli atti normativi dei vari soggetti federati e proporre al
Presidente la loro destituzione. Inoltre, una legge del 5 agosto 2000
demanda all’esecutivo dei soggetti federati il compito di nominare il
rappresentante presso l’Assemblea Federale o Consiglio della Federazione
(la seconda Camera prevista dalla Costituzione del 1993, composta da
176 rappresentanti delle varie entità territoriali) per evitare che la
rappresentanza spetti direttamente al capo dell’esecutivo. In questo
modo, i titolari del potere esecutivo delle varie entità territoriali
non acquisiscono l’immunità parlamentare e possono essere perseguiti
senza alcuna autorizzazione. Le leggi in questione, infatti, si pongono
l’obiettivo di spezzare il legame tra i governatori regionali e le varie
clientele mafiose che si sono originate con le liberalizzazioni
dell’era Eltsin. Le riforme in questione, quindi, hanno implementato la
cosiddetta “verticale esecutiva,” la necessità che il potere centrale
ponga le basi normative per l’assetto politico, amministrativo ed
economico della Federazione Russa. Il secondo mandato di Putin (eletto
nel 2004 con il 71% dei voti, rispetto al 53% dei voti raccolti nel
2000) si inaugura con la riforma politica: ridisegnare il quadro della
rappresentanza partitica. I provvedimenti legislativi vanno nella
direzione di una semplificazione del quadro politico: divieto di formare
partiti etnici o religiosi, eliminazione dei partiti regionali e quorum
del 7% per accedere alla Duma (la prima Camera prevista dalla
Costituzione, composta da 450 membri). Le riforme economiche sono
altrettanto imponenti rispetto a quelle amministrative e a quelle
politiche. Dopo il condizionamento della politica operato dagli oligarchi con
la presidenza di Eltsin (il cui secondo mandato viene garantito e
finanziato da Chodorkovskij, Gusinskij e Berezovsvskij), Putin riafferma
l’autorità dello Stato sulle risorse energetiche della Russia. Durante
l’era Eltsin il potere economico degli oligarchi risulta
superiore a quello dello Stato e, quindi, questi ultimi divengono
anelli fondamentali per la gestione della prassi politica. La presidenza
Putin rompe le collusioni tra potere economico e azione politica:
l’autorità dello Stato non può essere oggetto di negoziati. I primi due
oligarchi ad essere colpiti da provvedimenti giudiziari sono Gusinskij e
Berezevoskij, rispettivamente titolari del gruppo Media – Most
(controllo di influenti canali televisivi) e dei giornali Kommersant e
Nezavissimaya Gazeta. Gusinskij viene accusato di evasione fiscale e
mancato pagamento di un debito di 380 milioni di dollari alla Gazprom,
il colosso energetico della Russia. Berezevoskij viene accusato di
gestione impropria di alcuni fondi stranieri collegati alla Aeroflot e
di un debito di svariati milioni di dollari nei confronti della
Vneshekonombank e della Luk Oil. Sul fronte della politica energetica,
negli anni 1999 – 2004, Vladimir Putin promuove il controllo
sull’industria pesante e sulla quella connessa agli idrocarburi con la
riacquisizione di importanti quote societarie della Gazprom e della Luk
Oil. In particolare, viene posta sotto inchiesta per la Sibur (vecchia
società controllata dalla Gazprom) per irregolarità di bilancio e
fiscali. L’inchiesta si conclude con il fallimento della società e
l’arresto di tre alti funzionari per falsità in documenti contabili.
Tuttavia, l’offensiva più forte nei confronti degli oligarchi è quella
condotta nei confronti di Chodorkovskij, il proprietario del colosso
petrolifero Yukos e della Banca Menatep. Chodorkovskij viene accusato di
varie reati: evasione fiscale, mancato rispetto delle sentenze,
falsificazioni di documenti, corruzione e furto. Inoltre, nella campagna
elettorale per le lezioni parlamentari del 2003, Chodorkovskij inizia a
finanziare partiti politici di area liberale come Yabloco e Sps
fortemente legati all’élite neoconservatrice americana. Lo scopo è
quello di condizionare il processo politico e concludere un discutibile
accordo con la Exxon – Mobil, la principale società petrolifera degli
Stati Uniti. L’accordo ha la finalità di sottrarre il controllo delle
risorse petrolifere alla Federazione Russa e fermare gli ambiziosi
programmi di crescita economica fissati con la prima presidenza Putin.
Dopo l’arresto e la condanna di Chodorkhovskij (graziato da Putin nel
marzo 2014 e riparato in Svizzera), la Yukos viene smembrata e acquisita
dalla Gazprom. Lo Stato non può abdicare alla propria funzione di guida
e sacrificare gli interessi della comunità a vantaggio di una ristretta
élite nata dall’oscuro clima di disgregazione sociale ed economica
dell’era Eltsin. I primi due mandati di Putin ricostruiscono lo Stato e
ridisegnano la piattaforma geopolitica della Federazione Russa. Dimitri
Medvedev, successore di Putin nel 2008 (la Costituzione vieta più di due
mandati consecutivi), si pone sulla stessa scia del predecessore e
implementa i nuovi programmi di politica economica e sociale grazie
all’ottimale gestione delle risorse energetiche di cui dispone la
Russia. I risultati del tandem Putin – Medvedev (Putin viene rieletto
per un terzo mandato nel marzo 2012) non tardano ad arrivare: il Pil pro
capite, tra il 1999 e il 2007, passa da 4.200 dollari a 12.100 dollari
per raggiungere i 15.200 del 2009; nel 2008 la fascia di povertà della
popolazione passa dal 23% all’11% tra il 2005 e il 2008; l’inflazione
scende dall’86% all’11%. L’azione di ricostruzione politica ed economica
del colosso russo dopo gli anni bui della presidenza Eltsin è stata
possibile solo grazie alla tenacia degli uomini gravitanti intorno alla
cerchia di Vladimir Putin, i cosiddetti siloviki (uomini
della forza). Si tratta, in particolare, del gruppo di potere
gravitante nell’orbita di Andropov (vecchio segretario del KGB) e dei
giuristi di San Pietroburgo vicini al Sindaco Sobchak. Il compito di
Vladimir Putin, in sostanza, è quello di mediare tra le varie componenti
delle due squadre e assicurare l’equilibrio necessario per continuare a
rafforzare l’autorità dello Stato sul piano interno. In questo senso,
una forte politica sul piano interno è condizione imprescindibile per
consolidare lo status di grande potenza che appartiene di diritto alla
Federazione Russa.
Il concetto di democrazia sovrana e il ritorno del “Politico”
Solitamente,
quando si parla della morfologia del potere politico russo si utilizza
il concetto di “democrazia sovrana.” Apparentemente, la categoria in
commento non genera particolari equivoci interpretativi, ma se
analizzata compiutamente mostra la sua forte carica simbolica.
Tecnicamente, una democrazia non può non essere sovrana perché il potere
esercitato dal popolo e in nome del popolo deve essere autentico,
altrimenti non si ha democrazia, ma oligarchia eterodiretta. Infatti,
questo tipo di analisi concettuale non è molto lontana dalla realtà e si
inserisce in contesto storico – politico determinato. L’origine della
categoria concettuale di “democrazia sovrana” deve essere ricercata
nell’analisi compiuta da Vladislav Surkov, collaboratore
dell’amministrazione presidenziale di Putin, all’indomani della
cosiddetta “rivoluzione arancione” del 2004 – 2005 in Ucraina. Proprio
per commentare gli eventi in parola, Surkov parla di “una combinazione
pericolosa tra una pressione populista dal basso e una pressione
internazionale dall’alto.” Fondamentalmente, Surkov allude al ruolo
determinate giocato dalle varie ONG di Soros per condizionare
profondamente l’evoluzione politica dell’Ucraina. In questo senso, la
democrazia non è più espressione autentica del volere popolare e,
quindi, non è sovrana perché eterodiretta dall’alto, da interessi
geopolitici determinati. La riflessione di Surkov è degna di rilievo
perché coglie con grande acutezza il senso della “rivolta colorata” per
estromettere Leonid Kučma dal potere (rivolta che si conclude con
l’elezione di Viktor Juščenko e la nomina a Primo Ministro di Julija
Tymošenko). In questo senso, la riflessione di Surkov e Putin matura
proprio intorno al ruolo che l’élite politica deve assumere nel processo
politico che coinvolge l’intera nazione. Quello che occorre, seguendo
l’analisi di Surkov, è una nazionalizzazione dell’élite politica per
renderla rispondente alle reali necessità della comunità. L’élite
politica, infatti, non può rispondere a interessi transnazionali perché
in questo modo spezza il legame con il popolo e, nello stesso tempo,
provoca una deviazione rispetto al destino naturale di una determinata
comunità, che è sempre il prodotto di specifiche condizioni storiche,
politiche e sociali. In altri termini, se la comunità risponde a
interessi discordanti con le sue reali necessità devia dal suo Nomos,
dalla sua autenticità. I provvedimenti riguardanti il settore
energetico, il divieto per le ONG di ricevere finanziamenti non
dichiarati dall’estero, la rottura della collusione tra finanza e
politica rientrano appieno nel programma di nazionalizzazione dell’élite
e di ricostruzione dell’autorità dello Stato. Nel principale lavoro
teorico di Surkov, “la nazionalizzazione del futuro,” l’autore delinea
con grande precisione le correnti ideologiche della Russia post –
sovietica: I Liberali, l’intellighenzia economica legata alla tradizione
del pensiero liberale di marca atlantista (Yabloko); I Rivoluzionari,
gruppo all’interno del quale rientra l’arco nazionalista e comunista (Il
KPRF di Zjuganov, il Partito Liberal – democratico di Žirinovskij); I
Conservatori, gruppo nel quale rientra l’apparato amministrativo di
Putin e che ha il compito di bilanciare “rivoluzione e conservazione,”
ovvero riforma e tutela della Tradizione (Russia Unita).
L’operato
del Presidente Vladimir Putin, infatti, si muove proprio all’insegna
del mantenimento della continuità di potere e, nello stesso tempo, nella
necessità di assicurare uno sviluppo economico – sociale ordinato. In
questo senso, la profonda crisi dell’era Eltsin ha fatto sorgere nella
Federazione Russa un nuovo arco di forze nazionali e patriottiche capaci
di ridisegnare la politica interna e il ruolo della nazione sullo
scacchiere della politica estera. Dopo la dissoluzione sociale,
economica e politica delle riforme post – sovietiche, l’era Putin ha
individuato la chiave di volta nel collante tra nazionalismo e
patriottismo. Un nazionalismo depurato dalle tendenze sciovinistiche del
panslavismo, un senso di orgoglio per la storia russa che diviene
modello per ridisegnare il presente in continuità con la Tradizione.
Emblematiche a questo riguardo le parole del defunto Patriarca Alessio
II: “ Putin si pone il problema del prestigio della Russia. Desidera
fare tutto il possibile affinchè il nostro paese sia considerato nel
mondo, affinchè nessuno osi pulirsi le scarpe con il nostro paese. E’
una persona preparata” (Angelica Carpifave, Conversazioni con Alessio
II, Ed. Mondadori). Vladimir Putin assume come paradigma della sua
azione politica la riconciliazione nazionale, la necessità di legare
armonicamente gli interessi della comunità per evitare spinte
centrifughe. In questo senso, “democrazia sovrana” significa
individuazione di una dinamica del potere in relazione alla specificità
culturali di una determinata civiltà. Vladimir Putin coglie nel segno
quando afferma che: “ L’esperienza degli anni novanta dimostra
chiaramente che un mero esperimento derivato da modelli e metodi
astratti che si possono leggere nei libri di testo stranieri non può
garantire che il nostro paese compia un vero rinnovamento, al riparo da
costi eccessivi. Nemmeno la riproduzione meccanica dell’esperienza di
altri paesi garantisce il successo. […]Il futuro dipende dalla capacità
di combinare i principi universali dell’economia di mercato e della
democrazia con la realtà russa. Gli scienziati, gli analisti, gli
esperti, i pubblici ufficiali, gli uomini politici e le organizzazioni
sociali devono lavorare tenendo in mente questo obiettivo” (La Russia
alla svolta del millennio, 31 dicembre 1999). Il senso della “democrazia
sovrana” è quello di individuare la dinamica del potere politico nella
specificità culturale della Russia, nella storia e nella sua Tradizione.
In tal senso, l’azione politica non deve imitare modelli esteri e
predeterminati, ma accompagnare l’evoluzione socio – economica nel
rispetto del Nomos,
dell’equilibrio e del bilanciamento di interessi. L’eminenza grigia del
Cremlino, che risponde al nome di Vladislav Surkov (destituito dalla
carica di capo dello staff presidenziale a fine 2011 e richiamato nel
settembre 2013), insiste sulla necessità di prospettare una “visione del
mondo” capace di fungere da paradigma del futuro politico della Russia.
Secondo Surkov, infatti, se la Russia vuole perseguire uno sviluppo
sociale ed economico nel rispetto della tradizione deve avere una
“visione del mondo” che ne orienti il cammino nelle sfide del XXI
secolo. In definitiva, seguendo l’analisi di Surkov, se l’Unione
sovietica possiede il crisma della sovranità, ma non quello della
democrazia, la Russia dell’era Eltsin possiede il crisma della
democrazia, ma non quello della sovranità. La soluzione per la Russia
post – sovietica va individuata nella necessità di bilanciare il
requisito della sovranità con quello della democrazia: recupero del
passato in chiave di esperienza e individuazione di una sintesi armonica
tra due momenti della storia russa che sono parte integrante della sua
evoluzione politica. La Russia deve costruire un sistema politico –
economico capace di competere sulla scena internazionale, ma senza
rinunciare alle proprie specificità culturali. La riconciliazione di
questi due fondamentali momenti della storia russa (il comunismo reale e
il passaggio alla democrazia rappresentativa) è una condizione
imprescindibile per superare le contraddizioni del presente e stimolare
una nuova passione comunitaria. In termini reali, questo significa che
la Federazione Russa ha il diritto di rifiutare il modello atlantico di
democrazia e trovare il proprio modello politico – economico nel
rispetto della specificità della cultura russa. In questo senso, l’idea
di “democrazia sovrana” serve a respingere le ingerenze occidentali (o
comunque straniere), mentre l’idea di “ripresa economica” serve a
spezzare il legame tra le forze economiche e gli interessi della
comunità nazionale nel suo complesso. L’intuizione di Surkov,
implementata dall’operato di Putin, ha avuto e continua ad avere un
grande impatto nella realtà nazionale. In particolare, la categoria di
“democrazia sovrana” ha permesso alla Russia di affermare un quadro di
“valori forti,” ma nello stesso tempo ha garantito flessibilità e
dinamicità alla politica sociale ed economica. Surkov e Putin ci
forniscono una grande lezione di realismo politico, una lezione da cui
imparare senza pregiudizi e apriorismi interpretativi. La riaffermazione
delle “categorie del Politico” (il saggio di Carl Schmitt del 1932) non
può prescindere dallo Stato, pena il dominio dell’economico e
“dell’utile.” In questo senso, “il concetto di Stato presuppone quello
di Politico,” ovvero uno Stato non diretto dalla politica è una
oligarchia in preda alla logica del profitto.
Le
lezioni che possiamo trarre dalla evoluzione storico – politica della
Russia sono molte. Prima fra tutte, il recupero della storia e delle
specificità nazionali. Senza la continuità del potere non esiste
comunità che tenga, ma solo eterarchia.
Nessun commento:
Posta un commento