di Simone Piras
Fonte: Cronache Internazionali
Un
anziano avanza curvo sotto il peso delle medaglie appuntate sul suo
petto. La folla si raccoglie attorno a lui, desiderosa di stringere la
mano a uno dei pochi veterani ancora vivi, a sessantotto anni dalla fine
della Seconda Guerra Mondiale. Scene come questa si ripetono ogni 9
maggio, quando sulla Piazza Rossa si svolge la tradizionale parata
militare per celebrare la Vittoria sul nazifascismo. L’organizzazione è
impeccabile, le autorità assistono fiere e impassibili, a cominciare dal
Presidente Putin, la folla è in tripudio. Il 2013 è un anno speciale,
in quanto ricorre il settantesimo anniversario dalla fine della
battaglia di Stalingrado.
Per
celebrare questo evento, un treno a vapore ha percorso la ferrovia da
Rostov a Belaja Klitva. In ogni stazione è stato rievocato un episodio
del sanguinoso assedio e il 28 maggio il convoglio ha finalmente
raggiunto Volgograd. Sì, perché fin dal 1961 – nell’ambito dell’opera di
destalinizzazione portata avanti da Nikita Chruščëv – la città prima
dedicata al dittatore sovietico è stata ribattezzata con il nome del
fiume più lungo d’Europa. Anche qui la popolazione ha celebrato in pompa
magna il Giorno della Vittoria. Migliaia di garofani rossi hanno
ricoperto le tombe degli eroi attorno all’immensa statua della Madre
Patria. Anche qui i veterani hanno avuto la propria giornata di gloria,
anche se le loro uniformi non erano tirate a nuovo e le loro scarpe non
erano lustre come quelle dei militi che sfilavano a Mosca.
Eppure
da quest’anno gli abitanti di Volgograd hanno un motivo in più per
essere orgogliosi. A fine gennaio il Consiglio municipale – pare su
richiesta di “numerosi veterani” – ha infatti deciso di ripristinare il
nome di “Eroica Città di Stalingrado” per sei giorni all’anno, inclusi
il 2 febbraio, anniversario della fine della battaglia, e il 9 maggio.
Nelle stesse date, sulla rete dei trasporti locali sono stati fatti
circolare i cosiddetti “bus della Vittoria”, decorati con le immagini di
Stalin. Tuttavia, la decisione del Consiglio non è stata esente da
polemiche. Se il Partito Comunista e alcune organizzazioni sindacali
hanno raccolto migliaia di firme a suo sostegno, l’opposizione liberale
extraparlamentare e il partito Russia Giusta l’hanno osteggiata
apertamente. Finora il Presidente Putin, incalzato affinché promuova il
ripristino definitivo del nome di Stalingrado, non ha preso posizione,
evitando di lodare o criticare pubblicamente il dittatore sovietico. La
stessa posizione attendista assunta dal partito di governo, Russia
Unita.
Secondo
un sondaggio condotto dal Centro Levada a inizio marzo, il 60 per cento
dei russi era contrario al cambio di nome per Volgograd, mentre solo il
23 per cento condivideva questa scelta e il 6 avrebbe preferito il
ritorno al vecchio nome zarista di Caricyn, abbandonato nel 1925. Oltre
la metà degli intervistati associava la morte di Stalin “alle fine del
terrore e delle repressioni di massa”, una percentuale simile a quella
di chi lo considerava “un saggio governatore che ha portato l’Urss alla
potenza e alla prosperità”. E se un’altra rilevazione mostrava come due
russi su cinque fossero del tutto indifferenti alla figura del
dittatore, nel 2012 egli occupava la prima posizione tra le figure che, a
detta dei cittadini, hanno avuto “un’influenza significativa sulla
storia mondiale”. Secondo il sociologo Lev Gudkov, questo “doppio
pensiero”, tipico della coscienza post-totalitaria, mostra come
grandezza nazionale e violenza siano considerate totalmente inscindibili
dai russi.
L’ha
capito bene Vladimir Putin, che negli ultimi anni ha promosso una
latente opera di riabilitazione dell’uomo d’acciaio. Una stazione della
metropolitana di Mosca contenente iscrizioni inneggianti alle sue gesta è
stata restaurata e aperta al pubblico, i monumenti a lui dedicati sono
sempre più numerosi e i testi scolastici “suggeriti” dal Governo per
l’insegnamento della storia ne dipingono un ritratto positivo. Ma la
chiave di volta di questa nuova politica del consenso consiste nel
mantenere vivo l’orgoglio per la vittoria del 1945, che per sette russi
su dieci è un merito indiscutibile di Stalin. Del resto, il sacrificio
patito dall’allora Unione Sovietica garantisce ancora oggi alla
Federazione Russa una legittimazione a livello mondiale.
Il
9 maggio l’intera collettività – dagli ultraottantenni agli
adolescenti, dai poveri diseredati agli oligarchi che manovrano la
politica – si ritrova in piazza per rendere omaggio agli Eroi della
Grande Guerra Patriottica. Accanto alle bandiere del Partito Comunista
sfilano quelle dei Liberaldemocratici di Vladimir Žirinovskij –
populisti di estrema destra –, mentre le organizzazioni giovanili legate
al partito di Putin distribuiscono volantini e coccarde. Una campagna
che non si ferma ai confini della Federazione ma coinvolge tutti i Paesi
dello spazio post-sovietico, nell’intento di preservarne i legami
storici e culturali con Mosca.
Dietro
questa colossale mobilitazione si cela però la debolezza del tessuto
sociale e della solidarietà civile. Ammainate le bandiere, il popolo
russo torna a dividersi in cricche attente soltanto a preservare la
propria quota di potere. I veterani, glorificati con tanto ardore per un
giorno all’anno, sopravvivono in grigi blocchi fatiscenti, con una
misera pensione e senza neppure la garanzia delle cure mediche.
Quest’anno molti giovani ben vestiti hanno ricevuto un volantino che
invitava a rendere omaggio agli eroi donando 50 rubli – poco più di un
euro – con un sms. Per sei giorni all’anno il Governo centrale si
ricorderà di Stalingrado, ma da Volgograd la capitale sembra
lontanissima. Ben poco della ricchezza moscovita arriva fino in
provincia, dove le infrastrutture cadono a pezzi e le pulsioni
separatiste sono sempre più forti. Per quanto tempo ancora questi
collaudati rituali collettivi riusciranno a garantire la stabilità della
Federazione?
Un particolare ringraziamento a Michael Sebek per le gli scatti e gli spunti di riflessione.
Nessun commento:
Posta un commento