di Mario Forgione
Fonte: Millennium
Il 7 agosto scorso il Presidente della BCE Mario Draghi, in un intervento ad ampio raggio su crisi economica e stabilità dell’euro, si è espresso senza veli sul futuro prossimo dei paesi con difficoltà di ordine finanziario: “Gli Stati devono cedere la loro sovranità sulle riforme strutturali.” L’intellighenzia politica italiana, con un malcelato senso di fastidio, ha intuito il riferimento all’Italia e si è subito lanciata in parziali smentite sulla necessità di sottoporre il Paese ad un processo di riforme economiche concordato con la Commissione Europea. In verità, il mese di agosto non è nuovo a simili suggerimenti da parte della BCE. Gli analisti di politica economica ricordano bene la lettera della BCE del 5 agosto 2011 indirizzata al governo Berlusconi con le indicazioni delle riforme “strutturali” per scongiurare la crisi dello spread (tasso di interesse sui titoli del debito pubblico) e della solvibilità del debito pubblico. Non si tratta di una banale coincidenza, ma di un rito che si ripete nel tempo. Nel mese di agosto, infatti, vengono elaborate le linee di politica economica da attuare in autunno, tenendo conto delle previsioni di crescita e dei dati macroeconomici provenienti dagli istituti preposti alla loro raccolta. Si tratta, nelle specie, di analisi macroeconomiche che poi determinano la legge di stabilità (approvazione del bilancio dell’esercizio precedente e dei nuovi capitoli di spesa). In realtà, negli ultimi tempi, la vaghezza del linguaggio giornalistico è un ostacolo importante per la corretta individuazione del significato da attribuire ai concetti espressi dalla dialettica politica. Una delle espressioni più abusate dall’inizio della “crisi dello spread” è quella riguardante le cosiddette “riforme strutturali,” che gli organi dell’UE considerano prioritarie per togliere l’Italia dalla pericolosa oscillazione tra stagnazione e recessione economica. In realtà, l’opinione pubblica è ignara del contenuto delle riforme strutturali invocate dalla UE al punto da costringere l’Italia a cedere la propria sovranità per imporle con un vero e proprio atto di imperio. Anche la classe politica si trincera nel vago e preferisce rendere evanescente l’espressione per evitare di pagare un costo elettorale. Le riforme strutturali sono di natura essenzialmente economica e mirano alla destrutturazione della politica sociale e dell’intervento pubblico in economia. Sostanzialmente, la lettera del 5 agosto del 2011 si articola in due punti essenziali: a) Necessità di una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala; b) Riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale, permettendo accordi al livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. Le indicazioni sono chiare: la strada da seguire è quella del liberismo integrale e della eliminazione di qualsivoglia forma di intervento pubblico in economia. La lettera della BCE del 5 agosto 2011, se letta nella giusta prospettiva e non semplicemente come frutto di un contesto particolare, rappresenta l’inizio di una prassi e di una modalità di azione da parte degli organismi di vertice dell’UE tesa a elidere ogni forma di controllo democratico sull’entità delle misure economiche da adottare per evitare la deflagrazione dell’unione monetaria. Del resto, lo stesso Giulio Tremonti, Ministro dell’economia e delle finanze dell’ultimo governo Berlusconi, in una intervista a il Giornale del 30/7/2013, si è espresso in maniera chiara sul contenuto della lettera: “Pensare che una lettera di quel tipo restasse segreta rivela una distorta cultura democratica. Se davvero hai la mentalità degli arcana imperii devi almeno evitare che si sappia in giro che c’è una lettera senza precedenti nei rapporti europei. Una volta che l’hai fatto sapere, pensare che il testo resti segreto era per lo meno puerile. Specie per come era stata scritta, chiedendo che le azioni dettagliate ed elencate fossero prese alla lettera, “per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro settembre 2011. Molto democratico!”
Giulio Tremonti riprende le stesse argomentazioni nel libro pubblicato nel gennaio del 2012, Uscita di sicurezza.[1] Questo, in sintesi, il pensiero di Tremonti sull’operato della BCE: “ La BCE ha pensato e agito come se la stabilità dell’euro, questa la sua essenziale missione, dipendesse solo dal livello dell’inflazione o solo dai deficit/debiti pubblici, e non anche dalle criticità proprie delle finanza privata, su cui in realtà non si è sufficientemente vigilato, né a livello nazionale né a livello centrale, e soprattutto a livello macroeconomico. In specie gli enti creditizi e la finanza privata, con le loro degenerazioni, sono stati totalmente ignorati, non osservati, non vigilati; la loro massa non è apparsa sugli schermi della BCE. Non è apparsa, si ripete, nemmeno a quel livello macroeconomico che pure era ed è di sua competenza. Un drammatico difetto di visione. Probabilmente è stato così perché la finanza privata era allora generalmente considerata incapace di sbagliare.”
Gli eccessi della speculazione finanziaria e dell’investimento in finanza strutturata degli enti creditizi non sono stati corretti, ma salvaguardati e garantiti dai bilanci pubblici. Il paradosso è quello di permettere alla politica di intervenire a tutela dei bilanci delle banche, ma di impedire alla stessa di correggere le storture del sistema e garantire il livello minimo dei servizi sociali. Dietro le indicazioni della BCE, quindi, esiste una precisa volontà politica: quella di togliere tutti i residui spazi di sovranità popolare. La BCE non si limita più alle “raccomandazioni” o alle direttive tecniche, ma impone addirittura il metodo e detta i tempi delle riforme. Nel gergo degli esperti di diritto pubblico questa prassi prende il nome di “stato di eccezione”, sospensione del normale processo legislativo per esigenze di tenuta del sistema. In verità, la criticità di un simile operato da parte di un organo tecnico e non elettivo come quello della BCE si pone in netto contrasto non solo con il Trattato sul funzionamento dell’UE, ma con la stessa Costituzione italiana. Infatti, l’articolo 127 del TFUE impone alla BCE di mantenere la stabilità dei prezzi (controllo dell’inflazione), ma non di individuare le linee guida di politica economica che gli Stati membri della UE devono adottare. Ancora, l’articolo 11 della Costituzione Italiana permette le cessioni di sovranità, ma al solo scopo di garantire la pace tra le Nazioni. In questo senso, se la partecipazione ad un organismo sovranazionale come l’UE mette a rischio il livello della prestazioni sociali essenziali, la stessa idea di sovranità popolare di cui all’articolo 1 della Costituzione si eclissa in una evidente deriva tecnocratica.
L’epoca attuale segna l’eclissi definitiva della sovranità, della necessità che i pubblici poteri siano in accordo con la volontà e le esigenze del popolo. Alain De Benoist, in un testo pubblicato nella primavera del 2014, parla di “Fine della Sovranità”[2] e articola una sorta di scansione temporale per individuare le diverse tappe che hanno portato alla scomparsa di qualsivoglia forma di raccordo tra azione politica e volontà popolare. Secondo De Benoist, infatti, la “fine del mondo non è avvenuta in un giorno preciso, ma si è spalmata su più decenni.” Il processo di estensione della logica mercantilistica su scala globale ha portato l’organismo sociale ad una sorta di sclerosi che ne sta comportando la totale disintegrazione. Si assiste, nella specie, ad una forma di estrema precarizzazione dell’esistenza, una vera e propria modernità liquida per citare Zygmunt Bauman.[3] In tal senso, Diego Fusaro ha precisato che “il precariato non è soltanto una forma lavorativa, peraltro la più meschina dell’intera storia dell’umanità, in quanto si regge sul duplice nesso di un asservimento che non si vede e di un esproprio forzato della progettabilità dell’avvenire: esso è, piuttosto, la cifra complessiva del nostro tempo storico, in cui vulnerabilità, precarietà e insicurezza regnano ovunque incontrastate.”[4]
Il carattere peculiare dell’attuale crisi economica deve essere individuato nella “completa emancipazione della finanza di mercato rispetto all’economia reale e dall’indebitamento generalizzato.”[5] Del resto, per avere un’idea chiara del fenomeno descritto sopra basta tradurre in cifre i concetti esposti: nel 2011 il valore dei derivati ha raggiunto l’ astronomica cifra di 707. 569 miliardi di dollari pari a circa 11,2 volte l’intero prodotto lordo del pianeta, che ammonta a circa 62. 911 miliardi di dollari.[6] Questo processo di totale asservimento dell’economia reale a quella finanziaria è stato coadiuvato dalla scomparsa di tutte quelle forme di regolamentazione emanate dopo la crisi del ’29 per evitare l’indebita commistione tra banche d’affari e banche commerciali. Si allude, nella specie, alla cosiddetta “deregolamentazione” dei servizi finanziari. L’abolizione, nel 1999, del Glass – Steagall Act (1933), che vietava alle Banche la commistione tra assicurazione, finanza e commercio, ha segnato l’inizio di un inesorabile processo di emancipazione della finanza dalle logiche dell’economia reale. Secondo De Benoist, “non più di mezzo secolo fa, la sovranità politica degli Stati posava su tre pilastri: sovranità economica, sovranità militare e sovranità culturale. Oggi, questi tre pilastri sono crollati. Poiché la mondializzazione ha ridefinito la frontiera tra il settore commerciale e quello non commerciale a favore del primo, gli Stati non solo non possono regolare o controllare il funzionamento dei mercati che creano e scambiano gli strumenti di credito al livello di tutto il pianeta, ma non possono neanche contenere l’ascesa esponenziale di una nuova classe transnazionale, che si afferma a scapito degli emarginati e degli esclusi.”[7] In questo senso, la mondializzazione elimina ogni spazio esterno alla lex mercatoria, in quanto l’esistenza di ogni alterità viene non solo combattuta con il ricatto delle sanzioni economiche, ma addirittura negata come possibilità logica. Il processo di emancipazione del mercato finanziario rispetto a ogni vincolo politico è iniziato con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher (1979) e Ronald Regan (1981) e ha raggiunto il suo acme con la dissoluzione dell’URSS (dicembre 1991). La dissoluzione dell’URSS, infatti, non ha avuto solo riflessi geopolitici, ma ha eliminato quell’alterità necessaria al sistema liberal – capitalistico. Solo la saldatura e la cooperazione tra i Paesi BRICS e l’America Latina può offrire un diverso modello di sviluppo economico e sociale rispetto a quello del capitalismo assoluto. L’esproprio di sovranità a favore dei mercati finanziari è stato ancora più radicale nell’Unione Europea, in quanto il TFUE vieta alla BCE di comprare sul mercato primario i titoli pubblici degli stati membri e obbliga questi ultimi a finanziare la propria spesa con i tassi decisi dai “mercati.” Si tratta, nella specie, di una dinamica pericolosa perché espone gli Stati al ricatto degli istituti finanziari e all’eclissi della sovranità politica ed economica. Nessuna riforma, nessun intervento di politica economica può essere attuato se non trova il “gradimento dei mercati” e delle agenzie di rating (specializzate in analisi sulla solvibilità dei organismi debitori). Lo spread, il cosiddetto differenziale tra i titoli pubblici dei paesi UE, non è altro che un termometro per misurare il livello di favore di cui godono gli Stati nell’ambito dei mercati finanziari. Inoltre, le singole banche nazionali possono finanziarsi dalla BCE ad un tesso pari all’1.5% e compare titoli pubblici che rendono fino al 4%. In questo modo, precisa De Benoist, “il debito entra così in una situazione di crescita esponenziale, per la semplice ragione che tutto il denaro messo in circolazione proviene da prestiti bancari e il contraente il prestito deve sempre rimborsare più dell’importo ricevuto. Una spirale infernale.”[8] Le soluzioni adottate dall’UE per uscire dalla spirale di tagli alla spesa, recessione e conseguente aumento del debito pubblico hanno reso ancora più radicale il processo di esproprio della sovranità politica degli Stati.
Nel marzo del 2012, gli Stati dell’UE hanno istituito il MES (Meccanismo europeo di stabilità) il cui capitale deve essere portato a 700 miliardi di euro. L’articolo 9 del MES prevede che i paesi devono contribuire al fondo in proporzione al PIL. Questo significa che l’Italia dovrebbe versare circa 125,3 miliardi di euro, una somma importante per un paese che oscilla tra recessione e stagnazione economica dal 2011. Tecnicamente, il MES ha il compito di evitare le crisi di solvibilità degli Stati membri, ma nessuno degli analisti si è soffermato sul meccanismo perverso attraverso il quale dovrebbe operare questo fondo. Nella specie, le banche nazionali che ricevono prestiti dalla BCE all’1.5% possono erogare prestiti al MES ad un tasso superiore e quest’ultimo, in caso di crisi di solvibilità di uno degli Stati membri, può erogare prestiti ad un tasso ancora più alto allo Stato in difficoltà. Ergo, gli Stati si indebitano per pagare gli interessi sui prestiti concessi dagli istituti creditizi. Si tratta, quindi, di un preciso disegno di ingegneria finanziaria per eliminare ogni spazio di sovranità politica ed economica.
Un altro Trattato, noto nel gergo degli specialisti come “Fiscal Compact,” firmato dagli Stati dell’UE (ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca) nel marzo del 2012 e approvato dall’Italia nel settembre del 2012, ha assestato un ultimo colpo al concetto di sovranità popolare. I contenuti del Trattato sono chiari: limitazione del deficit allo 0,5% e debito pubblico da contenere entro il 60%. Inoltre, il Trattato prevede la riduzione automatica del debito eccedente il 60% nella misura di 1/20 all’anno. Questo significa che l’Italia, il cui debito ammonta 2.168 miliardi (135,6% sul PIL), dovrebbe ridurre il proprio debito di circa 65 miliardi all’anno. Si tratta di cifre fuori da ogni logica e destinate a frantumare gli ultimi residui di coesione sociale.
Ancora, nel giugno del 2013 i 27 membri dell’UE hanno dato ufficialmente il mandato alla Commissione europea di negoziare con gli Stati Uniti un Partenariato transatlantico del commercio e degli investimenti (TTIP). Si tratta, nella specie, di un complesso progetto per la creazione di un mercato comune tra Europa e Stati Uniti. Del resto, il progetto risale alla Presidenza Clinton del 1995 e si è arricchito di nuovi sviluppi fino al 2009, l’anno in cui Obama ha deciso di imprimere una forte accelerata alle negoziazioni. Gli obiettivi ufficiali delle cancellerie europee di quella degli Stati Uniti sono quelli di eliminare le ultime barriere commerciali (dazi doganali), ma lo scopo è quello di sottrarre agli Stati la possibilità di regolamentare il mercato dei capitali e dei servizi. Del resto, alle negoziazioni sul TTIP partecipano numerose multinazionali come la Nestlè, la Walt Disney, la IBM, Microsoft ecc. Infatti, “come al momento della costituzione del NAFTA (zona di libero scambio che lega il Canada, gli Stati Uniti e il Messico) nel 1994, l’obiettivo manifesto è, come si è visto, quello della deregolamentazione degli scambi tra i due più grandi mercati del pianeta. Il progetto mira alla soppressione totale dei diritti di dogana sui prodotti industriali e agricoli, ma soprattutto si propone di raggiungere i livelli più alti della liberalizzazione degli investimenti.”[9] L’UE e gli Stati Uniti, quindi, dovrebbero far convergere le loro legislazioni in tutti i settori della produzione di beni e servizi. Questo significa che l’Unione Europea deve prendere come modello la legislazione di una Nazione che si pone fuori dal diritto internazionale per quanto riguarda l’ecologia, il lavoro, la protezione sociale e la sicurezza alimentare (si pensi alla complessa tematica degli OGM). Inoltre, il progetto di Partenariato prevede che gli Stati che non si adeguano alle norme del TTIP possono essere chiamati a rispondere delle loro violazioni dinanzi a tribunali arbitrali internazionali istituiti al preciso scopo di rendere vincolante ogni determinazione del Trattato. Le multinazionali potrebbero ottenere risarcimenti illimitati qualora la legislazione degli Stati non dovesse evolvere in senso liberista. Siamo all’ultima tappa di un complesso processo di eclissi della sovranità: siamo oltre il pensiero di Friedman e Hayek. Lo scopo del neoliberismo non è la riduzione dei compiti dello Stato, ma la totale subordinazione di ogni determinazione politica alle direttive del mercato. La necessità del tempo attuale impone l’emergere di una nuova “massa critica”, di una nuovo approccio dialettico alle questioni nazionali e internazionali. Isolare le questioni interne da quelle internazionali è puerile e pericoloso. La nuova dinamica del capitalismo globale impone di ripensare la politica e con essa la prassi. Prima che sia troppo tardi e l’eclissi della sovranità completa.
[1] Giulio Tremonti, Uscita di Sicurezza, p. 90, Rizzoli,2012.
[2] Alain De Benoist, La fine della sovranità, Arianna Editrice, 2014.
[3] Zygmunt Bauman, Vita Liquida, Laterza Editori, 2006.
[4] Diego Fusaro, Minima Mercatalia, p. 405 Bompiani, 2012.
[5] Alain De Benoist, op. cit., p. 21.
[6] Dati raccolti dalla Banca dei regolamenti internazionali.
[7] Alain De Benoist, op. cit., pp. 31 e 32.
[8] Alain De Benoist, op. cit., 45.
[9] Alain De Benoist, op. cit., pp. 83 e 84.
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