di Giorgio Cattaneo Fonte: Libreidee
La
vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta
verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come
predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere
al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche
italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti
vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile
vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di
precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce
“untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il
peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere
gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora,
secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una
sorta di suicidio irreversibile.
Al
cosiddetto capitalismo di relazione, «cioè all’intreccio tra
capitalismo (semifallito) delle grandi famiglie, capitalismo finanziario
e capitalismo (quasi dismesso) di Stato, si è sostituito l’arrembaggio
dell’industria e della finanza
internazionale, con la benedizione del governo Renzi», scrive Grazzini
su “Micromega”. Intervistato dal “Corriere della Sera”, il premier ha
definito «un’operazione fantastica» la vendita dell’Indesit di Merloni
alla concorrente Whirpool: «Ho parlato personalmente io con gli
americani a Palazzo Chigi. Non si attraggono gli investimenti esteri
riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo. Noi vogliamo
portare aziende da tutto il mondo a Taranto come a Termini Imerese. Il
punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Gli imprenditori
stranieri sono i benvenuti in Italia se hanno soldi e idee per creare
posti di lavoro».
Così, commenta Grazzini, il liberista Renzi esulta di fronte al fatto
che il capitalismo industriale italiano non è più competitivo e si sta
smembrando a favore dei capitali stranieri.
Ovvio
che gli investimenti esteri sono benvenuti, non si possono proteggere a
tutti i costi le società nazionali, «ma bisognerebbe assolutamente
evitare di cedere le industrie strategiche indispensabili per il futuro
industriale del nostro paese». Quasi sempre, continua Grazzini, le
cessioni all’estero arricchiscono solo le grandi famiglie, come i
Merloni e i Tronchetti Provera (vedi i casi di Pirelli e Telecom
Italia). L’ondata di cessioni industriali non comporta solo la riduzione
drastica dell’occupazione, ma anche l’impossibilità di mantenere le
condizioni per uno sviluppo economico autonomo e democratico. L’Italia,
«cedendo le sue industrie e le sue banche»,
di fatto «mina le basi del suo sviluppo». E, da domani, «peserà come
il due di picche nel turbolento scenario economico e politico europeo e
mondiale». Parla da sola la “fuga” americana della Fiat, «propiziata
dai miliardi concessi da Obama per proteggere l’industria americana
dell’auto e dal silenzio criminale e assurdo dei governi italiani».
De-italianizzata
anche Telecom, che non ha più pesanti azionisti italiani e «dietro lo
schermo ideologico della public company guidata dai manager è
sostanzialmente in vendita», sono rimasti pochissimi i grandi gruppi
italiani in grado di competere sul mercato internazionale. «E sono
praticamente tutti statali, ovvero Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e
pochi altri». Nonostante i peccati mortali attribuiti (spesso
giustamente) ai boiardi di Stato, quel che resta della nostra industria
pubblica sa competere meglio di quella privata, rileva Grazzini. «Anche
per queste industrie strategiche il governo prevede però una
disgraziata privatizzazione a favore dei capitali esteri, con
l’obiettivo (falso) di diminuire il debito pubblico
e rispettare i vincoli di deficit pubblico posti dall’Unione Europea».
La verità è ben altra: «L’euro ci strozza e la Ue vuole farci vendere i
gioielli di famiglia. Ma anche un grullo capisce che non si può
alleggerire un debito di 2.100 miliardi con la vendita di quote di
società da cui ricavare al massimo qualche decina di miliardi».
All’opposto,
lo Stato francese difende il controllo della sua industria nucleare e
dell’energia, diventando il maggiore azionista di Areva per impedirne
la completa acquisizione da parte dell’americana General Electric.
«L’ideologia liberista di Renzi non è più praticata neppure presso i
paesi più liberisti», scrive Grazzini. «Obama protegge gelosamente le
sue industrie strategiche, l’auto, l’hi-tech e la finanza. La Fed, la banca centrale americana, stampa decine di miliardi di dollari al mese grazie ai quali le banche
d’affari e le industrie statunitensi possono acquistare facilmente i
concorrenti esteri. Anche grazie al “privilegio esorbitante” del dollaro
facile, il 40% circa della Borsa italiana è in mano a banche
d’affari, fondi pensione e fondi speculativi e di private equity
americani, arabi, europei, fondi sovrani di Stati esteri». Esempio: il
fondo BlackRock, gigante della finanza Usa, è uno dei principali azionisti non solo di Telecom Italia ma anche di Unicredit e Intesa, cioè delle due principali banche nazionali in cui confluisce gran parte del risparmio degli italiani.
Ma
non è solo il governo americano a intervenire a favore della sua
industria: secondo uno studio di Mediobanca, il governo britannico e
quello tedesco hanno speso rispettivamente 1.213 e 446 miliardi di euro
per salvare le loro banche nazionali dalla crisi.
Angela Merkel fa di tutto per proteggere e sviluppare l’industria
tedesca dell’auto e della meccanica. La Germania, inoltre, «manovra
l’euro come se fosse il marco per favorire le sue esportazioni e la
proiezione internazionale della sua industria». E il governo bianco-rosa
della cancelliera finanzia (giustamente) con denaro pubblico la sua
industria delle energie alternative, contrastando duramente l’Unione
Europea che vorrebbe impedire gli aiuti di Stato anti-competitivi. «I
paesi emergenti – a partire da Cina, India e Brasile – sono riusciti a
svilupparsi negli ultimi decenni attirando gli investimenti industriali
esteri, ma anche proteggendo le industrie strategiche grazie allo
stretto controllo dei capitali stranieri».
Solo una politica pubblica attiva e intelligente, conclude Grazzini, può infatti difendere l’economia
nazionale dall’assalto dei grandi enti finanziari che divorano le
industrie, sviluppando ricerca, infrastrutture, aziende hi-tech e
energie alternative. «Purtroppo il governo Renzi sembra avere una
visione di politica economica completamente subordinata all’ideologia
del “lasciar fare” ai mercati finanziari. Il governo interviene solo “a
babbo morto” quando un’azienda è completamente fallita, come Alitalia,
per cederla ai capitali esteri, cercando solo, per quanto possibile, di
salvare le grandi banche
creditrici (Intesa e Mps innanzitutto, nel caso Alitalia)». A fermare
la slavina basterebbe un intervento deciso della Cassa Depositi e
Prestiti, «l’unico ente nazionale simile a una banca pubblica». Meglio
ancora: «Il governo dovrebbe nazionalizzare e gestire una grande banca, e
finanziare (con profitto pubblico) le piccole aziende italiane in
grave crisi di liquidità», nonché «le medie aziende del cosiddetto “quarto capitalismo” in grado di competere sui mercati internazionali».
Un
fondo pubblico specializzato, continua Grazzini, dovrebbe inoltre
co-finanziare massicciamente le società private di “venture capital”,
per sponsorizzare l’avvio e lo sviluppo globale di nuove start-up nei
campi promettenti ma incerti dell’hi-tech. Peccato che politica sia
praticamente inesistente, a cominciare da sinistra e sindacati, pur
sapendo che «l’intervento statale non basta assolutamente per salvare e
sviluppare l’industria nazionale: nell’economia dell’innovazione e delle conoscenze occorre mobilitare soprattutto l’intelligenza e la partecipazione dei lavoratori». Democrazia dal basso, per consentire alla forza lavoro
– come avviene in Germania – di eleggere i suoi rappresentanti nei
consigli di amministrazione delle grandi imprese, come l’Ilva e Telecom.
Per Grazzini, «il pericolo maggiore – e imminente – è che non solo le
industrie manifatturiere ma anche le banche
nazionali vengano cedute all’estero (come è già successo con Mps, la
terza banca nazionale) e che il risparmio degli italiani vada ad
alimentare completamente lo sviluppo delle economie estere». Con
soddisfazione sospetta, l’“Economist” annuncia che dal 2010 le
fondazioni nazionali (lottizzate, ma pur sempre semi-pubbliche) abbiano
perso la presa sulle banche
italiane quotate in Borsa, che ormai dipendono dal “libero” mercato
azionario per il 77%, con investitori stranieri padroni dell’11% del
credito italiano, cioè il doppio rispetto a pochi anni fa.
L’unificazione bancaria europea decisa dalla Ue genera la necessità di ricorrere al mercato per ricapitalizzare le banche nazionali colme di debiti in sofferenza a causa della crisi,
e spesso dei crediti erogati agli “amici”. «L’apertura del mercato
bancario nazionale sollecitata dall’Unione Europea è una fortuna per la
speculazione internazionale», spiega Grazzini. «Le ricapitalizzazioni
sono una manna per gli investitori esteri che con pochi soldi potranno
acquistare il risparmio nazionale: ma senza il minimo controllo sul
risparmio non ci saranno nuovi investimenti e prospettive di sviluppo
più o meno sostenibile». L’Italia? «Diventerà irrimediabilmente un paese
del terzo mondo». Ama conclusione: «L’economia italiana avrebbe bisogno di democrazia
economica dal basso, di una avanzata politica industriale, di capitani
d’industria come Enrico Mattei e Adriano Olivetti, di innovatori come
Steve Jobs, di banchieri come Raffaele Mattioli, e di politici della
statura di De Gaulle per difendere e sviluppare l’economia nazionale. Purtroppo invece in Italia hanno prevalso i Marchionne, i Berlusconi e i Renzi».
La
vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta
verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come
predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere
al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche
italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti
vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile
vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di
precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce
“untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il
peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere
gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora,
secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una
sorta di suicidio irreversibile.Al cosiddetto capitalismo di relazione, «cioè all’intreccio tra capitalismo (semifallito) delle grandi famiglie, capitalismo finanziario e capitalismo (quasi dismesso) di Stato, si è sostituito l’arrembaggio dell’industria e della finanza internazionale, con la benedizione del governo Renzi», scrive Grazzini su “Micromega”. Intervistato dal “Corriere della Sera”, il premier ha definito «un’operazione fantastica» la vendita dell’Indesit di Merloni alla concorrente Whirpool: «Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Non si attraggono gli investimenti esteri riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo. Noi vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto come a Termini Imerese. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Gli imprenditori stranieri sono i benvenuti in Italia se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro». Così, commenta Grazzini, il liberista Renzi esulta di fronte al fatto che il capitalismo industriale italiano non è più competitivo e si sta smembrando a favore dei capitali stranieri.
Ovvio che gli investimenti esteri sono benvenuti, non si possono proteggere a tutti i costi le società nazionali, «ma bisognerebbe assolutamente evitare di cedere le industrie strategiche indispensabili per il futuro industriale del nostro paese». Quasi sempre, continua Grazzini, le cessioni all’estero arricchiscono solo le grandi famiglie, come i Merloni e i Tronchetti Provera (vedi i casi di Pirelli e Telecom Italia). L’ondata di cessioni industriali non comporta solo la riduzione drastica dell’occupazione, ma anche l’impossibilità di mantenere le condizioni per uno sviluppo economico autonomo e democratico. L’Italia, «cedendo le sue industrie e le sue banche», di fatto «mina le basi del suo sviluppo». E, da domani, «peserà come il due di picche nel turbolento scenario economico e politico europeo e mondiale». Parla da sola la “fuga” americana della Fiat, «propiziata dai miliardi concessi da Obama per proteggere l’industria americana dell’auto e dal silenzio criminale e assurdo dei governi italiani».
De-italianizzata anche Telecom, che non ha più pesanti azionisti italiani e «dietro lo schermo ideologico della public company guidata dai manager è sostanzialmente in vendita», sono rimasti pochissimi i grandi gruppi italiani in grado di competere sul mercato internazionale. «E sono praticamente tutti statali, ovvero Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e pochi altri». Nonostante i peccati mortali attribuiti (spesso giustamente) ai boiardi di Stato, quel che resta della nostra industria pubblica sa competere meglio di quella privata, rileva Grazzini. «Anche per queste industrie strategiche il governo prevede però una disgraziata privatizzazione a favore dei capitali esteri, con l’obiettivo (falso) di diminuire il debito pubblico e rispettare i vincoli di deficit pubblico posti dall’Unione Europea». La verità è ben altra: «L’euro ci strozza e la Ue vuole farci vendere i gioielli di famiglia. Ma anche un grullo capisce che non si può alleggerire un debito di 2.100 miliardi con la vendita di quote di società da cui ricavare al massimo qualche decina di miliardi».
All’opposto, lo Stato francese difende il controllo della sua industria nucleare e dell’energia, diventando il maggiore azionista di Areva per impedirne la completa acquisizione da parte dell’americana General Electric. «L’ideologia liberista di Renzi non è più praticata neppure presso i paesi più liberisti», scrive Grazzini. «Obama protegge gelosamente le sue industrie strategiche, l’auto, l’hi-tech e la finanza. La Fed, la banca centrale americana, stampa decine di miliardi di dollari al mese grazie ai quali le banche d’affari e le industrie statunitensi possono acquistare facilmente i concorrenti esteri. Anche grazie al “privilegio esorbitante” del dollaro facile, il 40% circa della Borsa italiana è in mano a banche d’affari, fondi pensione e fondi speculativi e di private equity americani, arabi, europei, fondi sovrani di Stati esteri». Esempio: il fondo BlackRock, gigante della finanza Usa, è uno dei principali azionisti non solo di Telecom Italia ma anche di Unicredit e Intesa, cioè delle due principali banche nazionali in cui confluisce gran parte del risparmio degli italiani.
Ma non è solo il governo americano a intervenire a favore della sua industria: secondo uno studio di Mediobanca, il governo britannico e quello tedesco hanno speso rispettivamente 1.213 e 446 miliardi di euro per salvare le loro banche nazionali dalla crisi. Angela Merkel fa di tutto per proteggere e sviluppare l’industria tedesca dell’auto e della meccanica. La Germania, inoltre, «manovra l’euro come se fosse il marco per favorire le sue esportazioni e la proiezione internazionale della sua industria». E il governo bianco-rosa della cancelliera finanzia (giustamente) con denaro pubblico la sua industria delle energie alternative, contrastando duramente l’Unione Europea che vorrebbe impedire gli aiuti di Stato anti-competitivi. «I paesi emergenti – a partire da Cina, India e Brasile – sono riusciti a svilupparsi negli ultimi decenni attirando gli investimenti industriali esteri, ma anche proteggendo le industrie strategiche grazie allo stretto controllo dei capitali stranieri».
Solo una politica pubblica attiva e intelligente, conclude Grazzini, può infatti difendere l’economia nazionale dall’assalto dei grandi enti finanziari che divorano le industrie, sviluppando ricerca, infrastrutture, aziende hi-tech e energie alternative. «Purtroppo il governo Renzi sembra avere una visione di politica economica completamente subordinata all’ideologia del “lasciar fare” ai mercati finanziari. Il governo interviene solo “a babbo morto” quando un’azienda è completamente fallita, come Alitalia, per cederla ai capitali esteri, cercando solo, per quanto possibile, di salvare le grandi banche creditrici (Intesa e Mps innanzitutto, nel caso Alitalia)». A fermare la slavina basterebbe un intervento deciso della Cassa Depositi e Prestiti, «l’unico ente nazionale simile a una banca pubblica». Meglio ancora: «Il governo dovrebbe nazionalizzare e gestire una grande banca, e finanziare (con profitto pubblico) le piccole aziende italiane in grave crisi di liquidità», nonché «le medie aziende del cosiddetto “quarto capitalismo” in grado di competere sui mercati internazionali».
Un fondo pubblico specializzato, continua Grazzini, dovrebbe inoltre co-finanziare massicciamente le società private di “venture capital”, per sponsorizzare l’avvio e lo sviluppo globale di nuove start-up nei campi promettenti ma incerti dell’hi-tech. Peccato che politica sia praticamente inesistente, a cominciare da sinistra e sindacati, pur sapendo che «l’intervento statale non basta assolutamente per salvare e sviluppare l’industria nazionale: nell’economia dell’innovazione e delle conoscenze occorre mobilitare soprattutto l’intelligenza e la partecipazione dei lavoratori». Democrazia dal basso, per consentire alla forza lavoro – come avviene in Germania – di eleggere i suoi rappresentanti nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, come l’Ilva e Telecom. Per Grazzini, «il pericolo maggiore – e imminente – è che non solo le industrie manifatturiere ma anche le banche nazionali vengano cedute all’estero (come è già successo con Mps, la terza banca nazionale) e che il risparmio degli italiani vada ad alimentare completamente lo sviluppo delle economie estere». Con soddisfazione sospetta, l’“Economist” annuncia che dal 2010 le fondazioni nazionali (lottizzate, ma pur sempre semi-pubbliche) abbiano perso la presa sulle banche italiane quotate in Borsa, che ormai dipendono dal “libero” mercato azionario per il 77%, con investitori stranieri padroni dell’11% del credito italiano, cioè il doppio rispetto a pochi anni fa.
L’unificazione bancaria europea decisa dalla Ue genera la necessità di ricorrere al mercato per ricapitalizzare le banche nazionali colme di debiti in sofferenza a causa della crisi, e spesso dei crediti erogati agli “amici”. «L’apertura del mercato bancario nazionale sollecitata dall’Unione Europea è una fortuna per la speculazione internazionale», spiega Grazzini. «Le ricapitalizzazioni sono una manna per gli investitori esteri che con pochi soldi potranno acquistare il risparmio nazionale: ma senza il minimo controllo sul risparmio non ci saranno nuovi investimenti e prospettive di sviluppo più o meno sostenibile». L’Italia? «Diventerà irrimediabilmente un paese del terzo mondo». Ama conclusione: «L’economia italiana avrebbe bisogno di democrazia economica dal basso, di una avanzata politica industriale, di capitani d’industria come Enrico Mattei e Adriano Olivetti, di innovatori come Steve Jobs, di banchieri come Raffaele Mattioli, e di politici della statura di De Gaulle per difendere e sviluppare l’economia nazionale. Purtroppo invece in Italia hanno prevalso i Marchionne, i Berlusconi e i Renzi».
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