"Hanno la svastica sulla uniforme. Come è possibile che l’Europa li sostenga?”. La domanda a cui Renzi non può (vuole) rispondere
Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un bel reportage di Vauro Senesi dalla autoproclamata Repubblica popolare di Lughansk, un luogo dove la popolazione locale viene quotidianamente sterminata da battaglioni di estrema destra al servizio dello stato fantoccio di Kiev. Il tutto nel silenzio più assoluto dei media italiani. Un silenzio finalizzato a coprire una politica estera - quella di Renzi e Mogherini per intenderci - ingiustificabile e che sta compromettendo - per seguire gli Stati Uniti in questa folle corsa verso il baratro contro la Russia - importanti interessi strategici nazionali.
Quest'articolo di Vauro Senesi sul Fatto Quotidiano è un'importante eccezione:
Le vite bruciate nella neve di Lughansk
AI BORDI DELLA STRADA chiazze di neve gelata, sporche, si contendono
spazio con i crateri anneriti delle esplosioni. “Pervomaisk“, Primo
Maggio, è scritto sul cartello,anche quello crivellato di schegge
d’obice, all’ingresso di questa città a pochi chilometri da Lughansk, la
capitale della autoproclamata Repubblica Popolare del Lughansk, nella regione russofona del Donbass.
Ci fermiamo in uno spiazzo circondato da palazzi di edilizia popolare,
sette o otto piani, squadrati, di stile sovietico. La loro geometria
monotona è interrotta, stravolta da squarci nelle mura che paiono
eruttare colate di macerie fossilizzate. Uno degli squarci è talmente
grande da attraversare la struttura lasciando intravedere dall’altra
parte delle pareti annerite dal fuoco uno spicchio di cielo grigio.
“Lì viveva una madre con i suoi tre bambini…”. Si sono avvicinate
quattro donne di mezz’età imbacuccate per il freddo. “…non è rimasto
nulla di lei e dei suoi figli. L’esplosione li ha disintegrati tutti” ci
dice, indicando la voragine, una di loro, Irina. Racconta senza che
dalla sua espressione trapeli alcuna emozione. Dolore, commozione,
paura, forse tutte le emozioni di Irina sono bruciate, ridotte in
macerie come la città in cui continua a vivere.
Prima della guerra contava 25.000 abitanti, adesso ne sono restati meno di 8000, la maggior parte ha cercato rifugio in Russia. Non c’è più elettricità, né acqua corrente. Centrale elettrica, acquedotto, tutto distrutto dai bombardamenti. “Ma perché non ve ne andate, non fuggite?” . Irina scuote la testa rassegnata ed ostinata. “Questa è la nostra terra”. “Ma come fate a sopravvivere così?”. “I cosacchi ci portano il cibo quando ne hanno. Quando non ne hanno a sufficienza se ne privano per noi”. Tutta quest’area è difesa dalla Guardia Nazionale Cosacca della Grande Armata del Don. “Solo loro pensano a noi. L’Europa arma l’esercito ucraino che ci bombarda. Perché? Anche noi eravamo ucraini”.
Prima della guerra contava 25.000 abitanti, adesso ne sono restati meno di 8000, la maggior parte ha cercato rifugio in Russia. Non c’è più elettricità, né acqua corrente. Centrale elettrica, acquedotto, tutto distrutto dai bombardamenti. “Ma perché non ve ne andate, non fuggite?” . Irina scuote la testa rassegnata ed ostinata. “Questa è la nostra terra”. “Ma come fate a sopravvivere così?”. “I cosacchi ci portano il cibo quando ne hanno. Quando non ne hanno a sufficienza se ne privano per noi”. Tutta quest’area è difesa dalla Guardia Nazionale Cosacca della Grande Armata del Don. “Solo loro pensano a noi. L’Europa arma l’esercito ucraino che ci bombarda. Perché? Anche noi eravamo ucraini”.
LO SCOPPIETTITO ansimante di un motore interrompe lo sfogo di Irina. Un
vecchio e scassatissimo camioncino entra nel cortile facendo lo slalom
tra carcasse di auto bruciate, mucchi di immondizia e cumuli di macerie.
Come attratti da un richiamo altri gruppi di donne escono dalle
palazzine semi distrutte con in mano sporte di bottiglie e tanichette di
plastica. Il camioncino si ferma. Sullo sportello , dipinti a mano, una
stella rossa e il simbolo della pace. Il conducente è ancor più vecchio
del mezzo. Magro, il viso incorniciato da una folta barba bianca, sul
capo una consunta bustina dell’armata rossa della seconda guerra
mondiale. Saluta le donne con un sorriso e le aiuta a riempire bottiglie
e taniche di acqua potabile dalla cisterna di plastica montata sul
cassone del camion. La prima linea del fronte si trova
poco al di là di queste palazzine. Una donna che spinge un passeggino
con un bambino piccolo attraversa la strada spezzata ad una cinquantina
di metri da una trincea protetta da tronchi d’albero, sacchetti di
sabbia e da una garitta di travi di legno dalla quale spunta la canna di
una mitragliatrice pesante. E’ questo l’avamposto più avanzato della
difesa di Pervomaisk presidiato dall’armata cosacca. Riparato dietro le
mura di una casa distrutta c’è un gazebo di plastica. Sotto, in un
barile arrugginito, brucia un po’ di legna. E’ il turno di Roman di
scaldarsi. Stende le mani intirizzite dal freddo sul braciere di fortuna
godendosi un po’ di tepore e di silenzio. “Tre giorni che c’è
silenzio…” ci dice abbozzando un sorriso tra la barba rada e biondiccia
che gli copre le guance… “Dopo trentadue giorni nei quali siamo stati incessantemente sotto il fuoco dell’artiglieria.”
Roman ha 28 anni. Ne dimostra meno, nonostante le occhiaie di
stanchezza impresse sul volto,la mimetica che indossa e il Kalashnikov a
tracolla. Non sa per quanto ancora ci sarà silenzio e non sa quanto
ancora durerà questa guerra. “Vogliamo la pace ma sul nostro pezzo di
terra. Riunirsi all’Ucraina non è più possibile. L’esercito di Kiev ha
sparato sul proprio popolo. Non ci resta che resistere fino in fondo”.
Ed è proprio della Resistenza che parla Roman. “Contro i nazisti di
là…”. Indica con il braccio la linea del fronte. “… Di là c’è
anche il battaglione Azov della Guardia Nazionale Ucraina. Hanno la
svastica sulla uniforme. Come è possibile che l’Europa li sostenga?”.
AZOV, AIDAR, DONBASS-DNEPR, DNEPR UNO, DNEPR DUE, sono i battaglioni
composti da volontari di estrema destra integrati nelle forze regolari
ucraine e finanziati, al pari del gruppo neo fascista Pravij Sektor,
dall’oligarca Igor Kolomoisky, Il ricchissimo e potente governatore
della regione di Dnepropetrovsk che oltre a quello ucraino ha anche
passaporto cipriota ed israeliano. Sorride di nuovo Roman mentre ci
saluta alzando il pugno . “No pasaran!”. Il saluto dei
repubblicani della guerra di Spagna qui tra i cosacchi ha trovato nuova
vita e purtroppo riacquistato senso ed è divenuto comune. “No
pasaran!” ripete Roman come volesse rassicurare anche noi. “LIUDJ”
scritta a grandi caratteri con la vernice bianca, questa parola che in
russo significa “Persone”, si ripete a tratti dipinta su abitazioni e
scuole. Un segnale che lì ci sono civili, non combattenti. Un tentativo
di protezione dal fuoco dei bombardamenti. La vediamo anche sul muro di
una casa bruciata mentre lasciamo Pervomaisk per continuare questo
nostro viaggio nella distruzione verso Novosvietlavka, sulla via che
conduce al vecchio areoporto. “LIUDJ”, persone. E’ proprio contro le
persone che questa guerra pare accanirsi. Siamo partiti da Lughansk,
abbiamo attraversato Stakanov, Pervomaisk e ovunque abbiamo visto scuole, ospedali, fabbriche, centrali elettriche ed idriche distrutte. Sistematicamente vengono colpite tutte le strutture vitali per la popolazione delle città e dei villaggi. Non è possibile non scorgere un disegno pianificato di pulizia etnica.
La volontà di costringere le “Persone” che qui vivono e sopravvivono ad
abbandonare quest’area e rifugiarsi in Russia , come molti sono già
stati costretti a fare, facendo intorno a loro terra bruciata.
TERRA BRUCIATA è il villaggio di Novosvietlavka. Bruciate quasi tutte le semplici isbe che lo compongono.
Distrutto l’acquedotto, la casa della cultura, la chiesa, la scuola.
Sulle macerie di quest’ultima, vicino alla carcassa di uno scuola-bus
giallo crivellato di colpi, è rimasto in piedi un grande cartello con
ritratti ragazzi e ragazze felici sotto la scritta “Quelli della scuola
sono gli anni più belli” che suona drammaticamente ironica in questo
sfacelo. Anche l’ospedale è ridotto ad un cumulo di macerie. Il
viceprimario Vladimir Nikolaj Svarjevsky cerca di darsi un contegno.
Pare vergognarsi, nemmeno fosse lui il responsabile di questa
devastazione. Ma poi cede e gli occhi gli si riempiono di lacrime, la
bocca di parole di un racconto dell’orrore che sembra non volersi
interrompere più. “Qui sono arrivati i miliziani del battaglione
Aidar…”. Saccheggi, fucilazioni, fosse comuni, cadaveri profanati per
sfregio… Pochi sono gli abitanti rimasti a Novosvietlavka. C’è
un vecchio. “Mi sono rifugiato in cantina. Quattro giorni nascosto al
buio, senza cibo ne’ acqua”. Un gruppo di ragazzini che aspetta, vicino
alla carcassa di un carrarmato bruciato, un bus che li porterà ad una
scuola a dieci chilometri da qui. “La nostra era più bella, più grande…”
dice uno di loro. E branchi di cani. “Sono molto pericolosi, attenti…”.
Il vecchio ci mette in guardia. “…La fame. Lo shock delle
esplosioni li hanno riportati allo stato selvatico. Sono diventati come
belve. Aggrediscono gli uomini”. Belve.
Fonte: L'Antidiplomatico